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17 Giugno 2014

Per le strade del rione pomeriggio di festa nonostante la pioggia

Quell'arma che tocca il cuore di Dio

 
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«Pregate tanto. Abbiamo bisogno di preghiera nel mondo: per la pace» e per la «gente che non ha il necessario per vivere». Congedandosi da Trastevere, domenica pomeriggio, Papa Francesco ha sintetizzato così il senso della visita compiuta ai poveri assistiti dalla comunità di Sant'Egidio. Un incontro durato più di due ore, durante il quale il Pontefice con le parole e con i gesti ha condiviso l'impegno a favore dei «popoli che sono in guerra, i popoli che soffrono per la guerra», e quello per i «nuovi poveri», come ha detto accennando al fatto che «ogni mese tante famiglie non possono pagare l'affitto e devono andarsene via». Ringraziando per l'accoglienza ricevuta, il vescovo di Roma ha ribadito che alla base di tutto deve esserci la preghiera, «l'arma che noi abbiamo per toccare il cuore di Dio. Se noi preghiamo, lui ci ascolterà ». Da qui la duplice consegna della «preghiera per i poveri e per la pace», alla quale ha voluto aggiungere una terza intenzione: «Pregate per me - ha concluso con una battuta - perché voi sapete che il mio lavoro è un lavoro "insalubre", e ho bisogno degli "straordinari in preghiera"».

Con le parole pronunciate dal portone della cappella di Sant'Egidio, storica sede della comunità, il Pontefice ha concluso un lungo incontro iniziato poco dopo le ore 16.30 in piazza San Calisto, dov'è giunto in automobile. Ad accoglierlo il cardinale vicario di Roma, Vallini, il vescovo Zuppi, ausiliare per il settore centro, il parroco di Santa Maria in Trastevere, monsignor Gnavi, il reggente della Prefettura della Casa pontificia , monsignor Sapienza il presidente e il fondatore della comunità di Sant'Egidio, Marco Impagliazzo e Andrea Riccardi, la giovane responsabile della comunità a Buenos Aires, Andrea Poretti.

Lungo il tragitto verso la basilica Papa Francesco ha salutato i numerosissimi fedeli assiepati dietro le transenne, inzuppati dai ripetuti acquazzoni abbattutisi su Roma nel pomeriggio. Incuranti della pioggia, in un clima di festa, hanno intonato canti in lingua spagnola sventolando le bandiere colorate della comunità con la scritta «Pace» in tutte le lingue. E il Papa ha risposto a questo calore stringendo mani, abbracciando bambini, dispensando carezze ai malati, lasciandosi immortalare in selfie con i giovani, soffermandosi con piccoli gruppi di profughi e di zingari. Al suo passaggio qualcuno ha pianto di commozione, qualcun altro gli ha regalato fiori, qualche altro ancora gli ha offerto del mate da sorseggiare. E una bambina in abito tradizionale delle Ande gli ha chiesto di benedire un cesto pieno di rosari. In piazza Santa Maria in Trastevere ha proseguito il percorso salutando soprattutto malati in carrozzella e anziani, come Iolanda che ha da poco compiuto cento anni. Sulla soglia della basilica ad attenderlo c'era una delegazione della comunità ebraica romana guidata dal presidente Riccardo Pacifici. Quasi mezz'ora ha impiegato il Papa per compiere il breve tragitto e quando alle 17 ha fatto ingresso all'interno dell'antica chiesa è esploso un fragoroso applauso, mentre la corale ha intonato in spagnolo Dichoso el hombre ("Beato l'uomo"). Dopo un saluto ai presenti - tra loro i cardinali Etchegaray, vice decano del Collegio, Poupard, Silvestrini, Lozano Barragàn, Vegliò e Turkson, l'arcivescovo Paglia, il vescovo Spreafico - Francesco si è recato nella cappellina che custodisce l'icona della Madonna della Clemenza per una preghiera silenziosa, al termine della quale ha deposto un mazzolino di fiori colorati.

Dopo le testimonianze e i discorsi, il successivo momento di preghiera è stato introdotto da un canto d'invocazione allo Spirito Santo. Alla proclamazione del vangelo di Marco (io, 42-45) hanno fatto eco le intenzioni dei fedeli, scandite ciascuna dall'accensione di una candela. Si è pregato, tra l'altro, per i malati, soprattutto per le vittime dell'aids in Africa; per i migranti, perché l'indifferenza non continui a inghiottire quanti cercano una nuova vita attraversando il Mediterraneo; per i nuovi martiri a causa del Vangelo; per l'unità di tutti i cristiani; per le popolazioni di aree segnate da conflitti, come Siria, Terra - Santa, Iran, Nigeria, Repubblica Centroafricano, Colombia e Ucraina; e per la città di Roma, affinché si apra alla speranza. Conclusa la preghiera, dall'uscita che dà su via della Paglia il Pontefice ha lasciato la basilica, mentre gli altoparlanti diffondevano il canto Noi non abbiamo molte ricchezze, che è un po' l'inno della comunità, e continuando a salutare i fedeli ha raggiunto a piedi la cappella di Sant'Egidio, dove ha dapprima sostato silenziosamente davanti all'altare, quindi in una sala interna ha salutato preti e seminaristi di varie parti del mondo e il consiglio di presidenza. Alle 18.50 si è congedato con un breve saluto, prima di salire sulla Focus con cui è rientrato in Vaticano. 

 Oanlitca biccini

 

 

Testimonianze di dolore e di riscatto

 Il dramma del popolo siriano, quello della solitudine degli anziani, le sofferenze di disoccupati, immigrati, disabili, Rom, profughi, poveri e senza fissa dimora, ma anche l'impegno dei giovani e la gioia di chi ce l'ha fatta a sottrarsi a un destino di morte o di emarginazione: nelle otto testimonianze presentate a Papa Francesco a Santa Maria in Trastevere c'era tutto il variegato mondo che ruota attorno alla comunità di Sant'Egidio. A ricordarlo è stato lo stesso fondatore Andrea Riccardi, che nel saluto iniziale rivolto al Pontefice, ha ripercorso i passi dell'esperienza nata quarantacinque anni fa. Mossa «dal sogno di essere Chiesa di tutti», la comunità si è «orientata verso le periferie» - ha detto - dando vita a una famiglia, in cui «chi aiuta si confonde con chi è aiutato».

Trastevere, ha aggiunto, «è il nostro centro: luogo di preghiera ogni sera e accoglienza, casa di ospitalità per stranieri e senza fissa dimora, mensa per chi ha farne poco lontano dall'altare dell'Eucaristia, asilo e casa di incontro per la pace». Un'attività che richiama le sfide più attuali poste da «un'Europa invecchiata, introversa, preoccupata di sé, tutta economia che diventa avarizia», e «anche da una Roma stanca, un po' malata e con poca speranza». Significative le testimonianze che si sono susseguite.

 L'arcivescovo siroortodosso di Damasco, Dionisius Jean Kawak, ha raccontato la storia del suo popolo «prigioniero del male», affermando che «si deve fare di più per la pace». Poi la novantenne Irma, appoggiata a un  bastone, ha letto la propria storia - ogni settimana si reca a far visita ai suoi coetanei ricoverati in istituto - come una possibilità di riscatto in una società dello scarto. Quindi Francesca, dodicenne di Tor Bella Monaca, ha ringraziato il Papa che parla delle periferie dove lei vive e ha raccontato la propria esperienza tra i "giovani per la pace", studenti che aiutano chi è nel bisogno Daniel, giovane padre di tre bambine, ha portato in basilica la voce di chi è disoccupato e rischia di essere tentato dai guadagni facili; mentre Adlriana, disabile, ha raccontato la propria vicenda di donna malata, sfrattata, debole, che non ha mai perso la fede e alla fine è anche riuscita a creare una famiglia. «Il dono più grande - ha spiegato - è avere degli amici e avere Gesù per amico. Ho capito che la mia più grande malattia era la solitudine». Branko, di etnia rom, ha ricordato come fin da piccolo abbia «imparato che non tutti i compagni si vogliono sedere vicino a te. Ti dicono che sei uno zingaro in maniera dispregiativa. Senti lo sguardo degli altri su di te: questo pesa e a volte si può avere una reazione aggressiva», ha confidato. «Oggi sono una persona felice: ho una bella famiglia, lavoro come cameriere in un ristorante, vivo in un appartamento. Ma per arrivare a questo punto c'è stato un lungo cammino», ha concluso.

 

Particolarmente toccante la storia del rifugiato afghano Dawood Yousefi, musulmano. «Il mio viaggio verso l'Italia è iniziato a piedi: ricordo il cammino sulle montagne tra l'Iran e la Turchia dove sono rimasto oltre due settimane. Ho visto ai lati del sentiero gli scheletri di altri profughi. Ho avuto paura di morire». Poi c'è stato l'attraversamento del Mediterraneo in gommone verso la Grecia e infine il viaggio nascosto per 35 ore sotto le ruote di un camion, con il rischio di finire schiacciato. Infine, in spagnolo, la testimonianza di  Jaime dal Salvador, dove la comunità ha perso un suo giovane membro, William Qujiano, di 21 anni, ucciso in un quartiere della periferia della capitale. 


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