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16 Luglio 2015

L'arte bella dei "diversi" alla conquista del mondo

Da un laboratorio della Comunità di Sant'Egidio, una mostra e un libro per dare voce a tre artisti con un passato doloroso in comune: la reclusione nel manicomio romano

 
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Nel quartiere romano di Trastevere lo si incontra sempre al bar di piazza san Cosimato. È un signore longilineo e silenzioso con una cartellina in mano. Ordina sempre un cappuccino e quando entra o sceglie un tavolino all'aperto ha già in mano un blocco da disegno e inizia a disegnare velocemente e ininterrottamente: volti, solo volti, vicini, lontani, estranei e conoscenti, belli brutti giovani vecchi maschi e femmine. Ritrae la sua, la nostra umanità con passione. Lavora a lungo... Non sono mai riuscita ad aspettare abbastanza per vederlo posare la matita, chiudere il blocco e andarsene, tanto a lungo lavora.
Poco tempo fa l'ho "ritrovato" al Chiostro del Bramante, visitando una mostra dedicata a tre artisti, Giovanni Fenu (il "mio" pittore del bar), Annamaria Colapietro e Roberto Mizzon: "Noi diamo più senso". Si tratta di uno dei progetti dei Laboratori d'Arte di Sant'Egidio, già ospitato nei padiglioni del vecchio Santa Maria della Pietà nel centenario della creazione dell'ex ospedale psichiatrico di Roma, e ora riproposto al Chiostro del Bramante. La mostra dà voce a tre artisti che condividono un passato doloroso, la reclusione nel manicomio romano, attraverso le loro opere e un allestimento multimediale realizzato dall'artista brasiliano César Meneghetti, che ha registrato le testimonianze degli artisti intervistandoli sulle loro vite, sui loro desideri, sul sogno condiviso di essere liberi. Le opere di Fenu, Colapietro e Mizzon raccontano tutte storie di liberazione e di riscatto.
«Ero ricoverato, ma l'arte mi ha dato tutto», ha detto Giovanni Fenu, che dopo un lungo periodo di ricovero, dalla fine degli anni Novanta ha frequentato i laboratori d'arte della Comunità di Sant'Egidio, dove ha intrecciato nuove relazioni e ritrovato la passione per la pittura.
«Non vedevo il cielo azzurro, lo vedevo sempre a quadri. Ho fatto una gabbia per mostrare dove stavo»: Roberto Mizzon racconta così gli anni trascorsi nell'istituto psichiatrico, che come una prigione isola dal mondo, distorce la realtà, e attraverso le sbarre di una finestra sempre chiusa anche il cielo è diverso.
Annamaria Colapietro afferma con chiarezza: «Mi piace dipingere, uso i pennelli e i colori. I colori so' belli, mi piace mischiarli, farli sempre diversi, nuovi. Mi piace perché dipingo quello che c'ho in testa io».
La mostra "Noi diamo più senso", attualmente in corso, fa parte di I/O E' UN ALTRO, un progetto avviato nel 2000 dall'artista César Meneghetti con i Laboratori di Sant'Egidio, in collaborazione con i critici e storici dell'arte Simonetta Lux e Alessandro Zuccari. Da allora l'artista brasiliano continua a lavorare con i disabili, grazie ai quali ha scoperto un'umanità ricchissima e imparato un altro modo di guardare il mondo. Della mostra sono complemento i suoi colloqui con gli artisti ripresi in video, una sorta di "comizi d'amore" che parlano di tutto, tra la vita e l'arte. Un uso dei media che sottolinea l'attivare i processi creativi relazionali: l'arte siamo noi, noi siamo l'arte, l'umanità e le sue diversità soprattutto sono arte, e l'incontro con l'altro rompe l'isolamento e la solitudine intorno alle persone con disabilità. "I/O È UN ALTRO" diventa così una grande opera d'arte in progress in cui interagiscono tante persone diverse. Non si tratta di arte-terapia, ma della possibilità per tutti di ricostruire liberamente la propria personalità. Di poter dire IO, e mentre creo, creo anche me stesso e mi relaziono col mondo. Tra tutte le qualità che nel tempo il manicomio riduce ai minimi termini - ha detto lo psichiatra Beppe dell'Acqua, uno dei principali collaboratori di Franco Basaglia - quella relativa alla fantasia, alla creatività, all'espressione di bisogni, di desideri è la più massicciamente colpita. Non a caso Basaglia chiamò degli artisti a lavorare a fianco dei medici. La creatività libera. E non è un caso che il simbolo della rivoluzione basagliana sia stato Marco Cavallo, una scultura di cartapesta alta quattro metri realizzata dall'artista Giuliano Scabia, una gioiosa macchina teatrale che, grazie alla sua mole, trasformò il sogno di Basaglia in realtà: il cavallo blu era troppo grande per passare dal cancello del manicomio di Trieste e fu necessario rompere il muro dell'ospedale.
In questi giorni Marco Cavallo ha sfilato negli spazi dell'Expo a Milano, portando " senso", nello stesso tempo, a Roma, artisti disabili psichici espongono le loro opere in uno dei luoghi dell'arte "ufficiale" della capitale (e il prossimo novembre saranno ospitati al Museo MAXXI). Me lo immagino salutare gli artisti e fargli l'occhiolino. Anche nella mostra in corso c'è un Marco Cavallo azzurro (dipinto da Roberto Mizzon) che attraversa i muri, li "evade" o li "trascende", come ha scritto Beppe Sebaste in uno dei testi del catalogo.
La "questione" delle istituzioni psichiatriche e della malattia mentale è tuttora aperta. C'è ancora tanto da fare, da imparare. Noi diamo più senso è l'ultima di una serie di "uscite nel mondo" attraverso l'arte, una tappa ulteriore di un percorso iniziato venti anni fa con i Laboratori d'Arte di Sant'Egidio. Alessandro Zuccari, che da tempo segue il percorso dei laboratori ha intuito la possibilità di rilevare attraverso l'arte la profondità di pensiero e l'intelligenza di persone con disabilità mentale che pregiudizi, paure e meccanismi di esclusione portano a negare e ignorare. Simonetta Lux, storica e critica di arte contemporanea - sua l'invenzione di un Museo Laboratorio di Arte Contemporanea all'Università La Sapienza, e la concezione dell'arte come processo relazionale - ha sostenuto negli ultimi anni lo sviluppo dei processi di collaborazione creativa tra artisti contemporanei e persone con disabilità. Dal 2010 comincia a collaborare ai Laboratori anche l'artista César Meneghetti con un progetto, I/O E' UN ALTRO, che coinvolge 200 disabili e che è stato ospite della Biennale di Venezia.
Chiediamo all'anima e alla forza dei Laboratori d'Arte di Sant'Egidio, ovvero Cristina Cannelli, del Dipartimento Culture del Comune di Roma, di parlarcene. «I laboratori sono nati a metà degli anni 80. Il primo laboratorio è nato a Trastevere, sede della Comunità di Sant'Egidio, poi piano piano sono seguite Garbatella, Primavalle, Vigne Nuove, Serpentara, Ostia, Prima Porta, Tor Pignattara, Tor Bella Monaca. Abbiamo scelto di andare nei quartieri di periferia dove l'arte non arriva. Le mostre le allestivamo in piazza. Nel laboratorio di Tor Pignattara abbiamo allestito anche un Museo, molti cittadini lo hanno difeso dai detrattori. "Aò! Giù le mani. È l'unica cosa bella che c'avemo!"
».
«Quando abbiamo conosciuto le prime persone con disabilità - prosegue Cristina - abbiamo scoperto la loro grande solitudine, ma anche tante risorse e potenzialità, spesso lasciate appassire nel loro essere nascoste dentro le case, o in attività d'intrattenimento. Era necessario innanzitutto vincere l'isolamento attraverso un contatto personale, trasformarci in una famiglia, assumerci le loro difficoltà e le loro speranze. Si è trattato di un lavoro di difesa dei diritti primari, anche con interventi nelle politiche sociali e sanitarie: favorire l'istruzione, facilitare l'ingresso nel mondo del lavoro, sostenere le famiglie e rendere possibile il ritorno a casa di persone istituzionalizzate».
I laboratori
Oggi frequentano i nostri laboratori più di 500 persone. Ma non è stata dura la "lotta", i laboratori hanno creato una comunità e dato la possibilità ai disabili di uscire da casa. «In quegli anni gli handicappati venivano tenuti casa, non li facevano uscire e non li mandavano a scuola - dice Cristina Cannelli -. Un destino segnato. Abbiamo portato fuori i disabili, nella realtà della vita quotidiana e in un luogo di apprendimento, a contatto con gli altri, handicappati e non (e ricordiamoci che anche i cosiddetti normali hanno i propri "handicap"). Abbiamo scoperto che i disabili mentali sono intelligenti, hanno un'intelligenza diversa, e che bisogna trovare una strada per comunicare, per capirli e per capirsi». «Ho rubato le parole», ha risposto Franca alla domanda: «Come hai imparato a leggere e scrivere?» Il gruppo aiuta, imbastire relazioni permette di prendere coscienza di sé ritrovare un'identità fuori dal pregiudizio. L'arte è stata, ed è, un prezioso linguaggio alternativo. Arturo è in carrozzina, alla scuola speciale la terapia era piallare il legno tutto il giorno senza scopo. Ora si affaccia dal laboratorio e dice soddisfatto: «Venite a vedere cosa ho fatto!» E Adriana spiega: «Anche da un angolino di un quadro ho imparato a conoscere me stessa e mi sono accettata per quello che sono, e mi piaccio».
«Non è vero che noi handicappati siamo tristi, ma tutti ci pensano così», spiega uno degli artisti del laboratorio. Conferma Cristina Cannelli: «Sono persone che mi aiutano a vivere, ad avere uno sguardo diverso sull'umanità. Grazie agli handicappati possiamo cambiare non solo la visione dell'handicap, ma, soprattutto la visione della vita. Si desidera una società per i deboli, perché è una società che va bene per tutti. Si pensa dei disabili: poverini, non possono fare quello che vogliono. Ma è sbagliato: il disabile è una persona che fa quello che NON vuole».
L'arte può cambiare le persone, ma l'handicap può anche cambiare l'arte, spingere a fare un passo avanti, come scrive nel catalogo di "Noi diamo più senso" un altro amico di Sant'Egidio, lo scrittore Beppe Sebaste: «I laboratori di Sant'Egidio...oltre a decostruire le definizioni biopolitiche dell'umano (liberandole dall'emarginazione, dall'esclusione, dai distinguo e dalle riserve) contribuiscono a decostruire l'arte e il suo sistema di valorizzazione. Ci ricordano che l'opera (d'arte) più importante è la comunità umana di cui arte e estetica sono da sempre simbolo e utopia». 


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