Oltre 800 tra eritrei ed etiopi in via Curtatone. Quasi 800 tra eritrei e sudanesi in via Collatina, 150 persone tra i quali molti somali in via Santa Croce in Gerusalemme.
La comunità di Sant'Egidio, da anni impegnata nell'emergenza immigrazione, assicura che in tutti questi casi si tratta di rifugiati e richiedenti asilo, dunque di regolari, che a buon diritto possono vivere in Italia. Eppure per loro lo status di profugo si traduce in occupazioni autogestite, in pieno centro storico o anche ai margini della città, unica alternativa alla strada.
«Sono persone uscite dai percorsi dell'accoglienza - spiega Daniela Pompei, responsabile del settore immigrazione di Sant'Egidio - Dopo l'avvenuto riconoscimento dell'asilo politico, il nostro sistema di accoglienza prevede altri sei mesi di assistenza in un centro, che significano vitto, alloggio, scuola, borsa lavoro. I sei mesi possono essere prorogati di altri sei mesi se il profugo ha in corso uno stage o un percorso di inserimento nel lavoro. Poi finisce tutto. E il rifugiato condivide con gli altri senza casa, italiani o immigrati, la mancanza di un tetto, perché il tema dell'alloggio è il nodo più grosso a Roma».
Dunque le occupazioni, che il più delle volte mettono insieme le disperazioni di provenienza diversa, convogliate nel grande fiume dei movimenti dei senza casa. La questura ha contato 76 occupazioni abusive, intorno alle quali ruotano circa 10mila persone. Un problema sociale prima che di ordine pubblico, che però può scatenare violenti scontri tra gruppi sociali dove le tensioni e i disagi sono più forti. «Queste persone - continua Pompei - si portano dietro fragilità di vario tipo, magari lavorano, ma senza guadagnare abbastanza per pagare una casa, oppure hanno perso il lavoro e hanno dovuto abbandonare il loro alloggio. Molti hanno tentato di raggiungere il nord Europa, dove c'è un sistema di accoglienza che funziona, ma sono stati rimandati indietro a causa del trattato di Dublino. Questo trattato stabilisce che sia la nazione di prima accoglienza a gestire i profughi, nonostante la loro meta sia altrove».
Cecilia Gentile
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