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Setyembre 29 2016

Papa Francesco all'incontro di Assisi

«Il primo posto va a chi soffre»

 
bersyong maipi-print

Le immagini di papa Francesco che, appena arrivato ad Assisi, saluta uno a uno i rappresentanti delle varie religioni, i capi di Stato, i rifugiati scappati dalla guerra, i politici, gli economisti, gli intellettuali, i fedeli; che pranza insieme con i potenti e i poveri; che prega, che sta in silenzio, che ammonisce, sintetizzano in un colpo solo le strade che ciascuno secondo le proprie responsabilità può intraprendere per fare spazio alla pace. Le strade del dialogo e dell'amicizia, del guardarsi negli occhi, del toccare le ferite gli uni degli altri, del conoscere, del tendere la mano.
A trent'anni di distanza dall'incontro voluto da Giovanni Paolo II il 27 ottobre del 1986, Francesco torna, grazie alla Comunità di Sant'Egidio, a parlare a un mondo che ha "Sete di pace", come recita il titolo dell'incontro. Lo fa accanto al patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, tenace almeno quanto il Papa argentino nel chiamare a raccolta i suoi contro la guerra. Lo fa insieme al rabbino Abraham Skorka, suo amico fin dai tempi in cui Bergoglio era arcivescovo di Buenos Aires, al musulmano Abbas Shuman, vicepresidente dell'Università Al-Azhar, al buddhista Gijun Sugitani, consigliere supremo della scuola Tendai (Giappone).
Papa Francesco condanna il commercio delle armi e indica nel denaro una delle principali cause del proliferare della guerra mondiale a pezzi. Una guerra che spinge milioni di persone all'esodo dalle proprie terre e che sconvolge intere famiglie. «Non vogliamo», dice il Papa, «che queste tragedie cadano nell'oblio. Noi desideriamo dar voce tutti insieme a quanti soffrono, a quanti sono senza voce e senza ascolto. Essi sanno bene, spesso meglio dei potenti, che non c'è nessun domani nella guerra e che la violenza delle armi distrugge la gioia della vita. Noi non abbiamo armi. Crediamo però nella forza mite e umile della preghiera».
Francesco richiama Giovanni Paolo II per spiegare che l'essere ad Assisi non si riduce a una «semplice protesta contro la guerra», e che la pace non è «il risultato di negoziati, di compromessi politici o di mercanteggiamenti economici. Ma il risultato della preghiera». Le religioni che pregano insieme, senza sincretismi o relativismi, ma semplicemente «gli uni accanto agli altri, gli uni per gli altri», mettono in scacco quanti le strumentalizzano per giustificare guerre e barbarie. «Uccidere in nome di Dio è demoniaco», aveva detto Bergoglio nella Messa a suffragio di padre Jacques Hamel, il sacerdote sgozzato a Rouen. «Chi utilizza la religione per fomentare la violenza ne contraddice l'ispirazione più autentica e profonda», ricorda ad Assisi. Aggiungendo che «nessuna guerra può essere condotta nel nome di Dio, mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa e non la guerra!».
Perdono, accoglienza, dialogo, superamento delle chiusure. Il Papa non si stanca di indicare la strada anche alle istituzioni internazionali per dare risposta alle nuove generazioni e al grido dei poveri. E chiede, a tutti, di pregare come hanno fatto ad Assisi i 500 leader religiosi. Una preghiera che non è «la quiete di chi schiva le difficoltà e si volta dall'altra parte, se i suoi interessi non sono toccati; non il cinismo di chi si lava le mani di problemi non suoi; non l'approccio virtuale di chi giudica tutti sulla tastiera di un computer, senza aprire gli occhi alle necessità dei fratelli e sporcarsi le mani per chi ha bisogno. La nostra strada è quella di immergerci nelle situazioni e dare il primo posto a chi soffre; di assumere i conflitti e sanarli dal di dentro; di percorrere con coerenza vie di bene, respingendo le scorciatoie del male; di intraprendere pazientemente, con l'aiuto di Dio e con la buona volontà, processi di pace».


 DIN BASAHIN
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