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Let us help Rohingya refugees in Bangladesh

The Community of Sant'Egidio launches a fundraising campaign to send humanitarian aid to the refugee camps in Bangladesh, in collaboration with the local Church

Christmas Lunch with the poor: let's prepare a table table that reaches the whole world

The book "The Christmas Lunch" available online for free. DOWNLOAD! And prepare Christmas with the poor


 
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April 30 2015 09:30 | Province of Bari, Council Chamber

Intervento di Paolo Gentiloni Ministro degli Esteri - ITALIA


Paolo Gentiloni


Minister of Foreign Affairs, Italy

 

 

  Vorrei ringraziare la Comunità di Sant’Egidio per questa bella iniziativa ed in generale per il suo impegno davvero instancabile a favore del dialogo della tolleranza e della dignità.

L’incontro di oggi ha come obiettivo iniziale, anche da parte mia, anzitutto di ascoltare le voci dei cristiani d’Oriente; ascoltare direttamente dalla vostra testimonianza quella che è una delle crisi più allarmanti che stiamo vivendo oggi nella nostra regione.

Papa Francesco ci ha ricordato che la sopravvivenza dei cristiani in Medio Oriente non è solo una questione di libertà religiosa, ma è una questione esistenziale; perché la questione delle minoranze dei cristiani in Medio Oriente è davvero drammatica. Gruppi terroristi vorrebbero annientarle, espellerle da terre e società di cui sono parte imprescindibile.

Per questo voglio innanzitutto ringraziare di cuore i Patriarchi e le autorità religiose che sono qui presenti che sono intervenute e ciascuno dei membri e delle vostre comunità di riferimento pur in condizioni difficilissime, continua a dare prova di coraggio e di libertà e questo è un grande segno di speranza per il presente e per il futuro del medio oriente.

Voglio poi rivolgere un pensiero ai tanti religiosi e religiose rapiti nel conflitto siriano, in particolare a padre Dall’Oglio, ai metropoliti di Aleppo, Mar Gregorios Yohanna Ibrahim e Boulos Yazigi.

Davanti a questo dramma, dobbiamo credo innanzitutto parlare di noi, dell’Europa. Ormai da anni l’Europa è malata di una malattia che si chiama egoismo, ignavia, indifferenza. Troppo spesso volgiamo lo sguardo altrove, lo abbiamo fatto anche vent’anni fa di fronte all’eliminazione di migliaia di musulmani a Srebrenica nel cuore dell’Europa da parte delle truppe di Mladic’. Lo facciamo oggi di fronte alla presenza di cristiani d’Oriente che interpella le nostre radici culturali, storiche e religiose. Siamo prigionieri del nostro egoismo e delle illusioni che il nostro egoismo alimenta. Per cui, se si propone di agire contro il terrorismo, si viene accusati di volere la guerra, se si investe in attività di cooperazione a sostegno e a favore dei profughi, si viene accusati di sprecare i soldi degli italiani, se si adottano politiche di accoglienza per tutti gli immigrati, si viene accusati di favorire l’illegalità. Credo che la prima cosa che dobbiamo e possiamo fare è non restare passivi di fronte a questa deriva, ma rispondere con azioni concrete nella cultura e nella diplomazia. 

In questi anni l’Italia si è attivata per contribuire a portare il tema della libertà di religione al centro del dibattito internazionale con un’azione costante sul piano bilaterale europeo e multilaterale. Abbiamo insistito sull’importanza dell’educazione dei diritti umani, sul ruolo fondamentale della società civile, dei mezzi di informazione e del mondo accademico per favorire la conoscenza ed il rispetto reciproco tra le fedi ed una cultura della coesistenza nella diversità. Ma dobbiamo dirci sinceramente, credo, che occorre fare di più; lo voglio dire con forza oggi qui a Bari. 

Voglio dire innanzitutto “no” alla pedagogia dell’odio, all’insegnamento dell’odio che in troppe parti della nostra regione continua. Voglio ricordare che per dire “no” alla pedagogia dell’odio, bisogna prendere la parola con intransigenza anche contro l’ignavia e l’indifferenza di cui parlavo prima, perché incrinano la nostra cultura. Perché come ci insegnano le comunità cristiane la giustizia esige la parresia, il coraggio della verità. 

Perché sono perseguitati i cristiani del Medio Oriente? Si è chiesto Andrea Riccardi nel suo intervento. Perché sono una minaccia vivente a chi promuove una visione totalitaria. Eliminarli, consente di colpire un pluralismo e di rafforzare una certa visione dell’islam contro un’altra visione dell’islam. 

Quando ci interroghiamo sul futuro delle comunità cristiane in Medio Oriente, non possiamo dimenticare che stiamo parlando del futuro dell’intera regione. Non può esistere un Medio Oriente senza cristiani, non ci sarà pace e riconciliazione nella regione senza la presenza di comunità cristiane. I cristiani sono una tessera vitale di quel mosaico etnico confessionale che è il Medio Oriente. Per questo la loro sorte interroga l’intera comunità internazionale e non solo i cristiani. 

Le differenze di pensiero, di razza, di credo costituiscono una ricchezza per la civiltà mediterranea e la civiltà di questa ricchezza; soprattutto nei rapporti tra le tre religioni abramitiche. L’esodo dei cristiani in Medio Oriente priva l’intera regione di una componente essenziale di moderazione-riconciliazione, oggi più che mai necessaria, proprio nel momento in cui le divisioni interne all’Islam – da un lato tra sciiti e sunniti – e dall’altro all’interno della comunità sunnita – si sono inasprite, e costituiscono esse stesse un motore di minaccia per il pluralismo e per le comunità di minoranza.

Per questo la presenza dei cristiani non risponde solo ad un imperativo etico, è strettamente legato al mantenimento di un Medio Oriente aperto alla diversità culturale, alla tutela della libertà, al riconoscimento di diritto di cittadinanza.

Oggi. quindi, la mobilitazione della comunità internazionale è essenziale per evitare che la tutela delle comunità cristiane sia percepita come preoccupazione esclusivamente dell’occidente. Questa impressione sarebbe in contrasto con l’idea di pluralità che vogliamo promuovere. La risposta agli aggressori non può e non deve essere interpretata automaticamente come un conflitto verso l’islam. Per questo persino i nomi sono importanti; Daesh non è uno stato e non è islamico. 

Sono particolarmente importanti le condanne di Daesh da parte di alcuni; penso alla grande università di Al Azhar, penso a esponenti di un islam moderato, come il re di Giordania Abdallah II secondo il quale (l’ho incontrato un paio di settimane fa) tocca innanzitutto agli islamici combattere quelli che egli definisce i rinnegati, che invocano un Islam che intendono in realtà distruggere. Daesh, ma anche altri gruppi terroristici, traggono linfa vitale anche dagli errori commessi dai governi, nell’attuazione di politiche non inclusive e perfino dall’Occidente, dall’illusione di interventi militari talvolta decisi senza avere chiare le prospettive di quello che sarebbe accaduto dopo. 

Dobbiamo quindi fare di più per trovare soluzioni politiche condivise alle crisi in Medio Oriente, serve un’azione ferma e a più livelli di contrasto al terrorismo e alle sue fonti di finanziamento. Serve un’attività di supporto umanitario nelle zone colpite dal terrorismo. Serve una nuova capacità della comunità internazionale, di assicurare alla giustizia i responsabili di crimini di guerre, crimini contro l’umanità. 

In Siria il piano per il Freeze a partire dalla città di Aleppo, che le Nazioni Unite hanno mutuato da un’idea lanciata nel nostro paese proprio dalla Comunità di Sant’Egidio, è forse l’unica opzione sul tappeto, ma dobbiamo riconoscerne le enormi difficoltà. L’obiettivo è quello di ridurre il livello della violenza e di favorire una transizione politica e forse verso questo obiettivo bisogna fare di più anche ponendoci in modo più attivo; l’obiettivo di coinvolgere la Russia in questa dimensione, nell’iniziativa per una pacificazione in Siria.

In Iraq continuiamo a sostenere gli sforzi del Governo Abadi, naturalmente sostenendo in primo luogo la necessità del pieno coinvolgimento delle comunità sunnite in quel processo dei rapporti positivi con le autorità regionali curde, e in questo ambito la necessità di garantire spazi di vita, di sopravvivenza alle comunità cristiane.

Dobbiamo difendere il Libano, il suo pluralismo, che è prezioso per l’intera regione e che oggi è minacciato - al di là delle dinamiche interne - dall’onda dei rifugiati che vengono dalla Siria e che ne minacciano la stabilità. 

Dobbiamo guardare alle prospettive in Terra Santa, tenendo conto del fatto che qualsiasi soluzione del contenzioso israelo-palestinese deve includere garanzie per quello che concerne la libertà di culto e di accesso ai Luoghi Santi. 

Servono infine anche azioni mirate per fermare l’emorragia di cristiani del Medio Oriente in atto da tempo, e che si aggrava con lo scoppio delle tensioni settarie che ha trovato il tragico apice nel fenomeno Daesh in Siria e in Iraq.  Per questo anche un Paese come il nostro, che non vive di certo una situazione economica eccezionalmente favorevole, sta cercando di moltiplicare i programmi di cooperazione allo sviluppo per sostenere sul piano umanitario, gli appartenenti alle comunità minoritarie, in particolare in quella regione cristiana e anche yazide. 

Siamo intervenuti con diversi pacchetti di cooperazione, ma dobbiamo sostenere soprattutto gli sforzi delle autorità locali per favorire politiche inclusive e di dialogo per adottare anche un quadro legale che specificamente sia volto a tutelare i diritti delle minoranze cristiane; per creare anche aree di mantenimento della pace attorno alle comunità cristiane che creino le condizioni di sicurezza per il rientro degli sfollati dalle zone in cui sono stati cacciati. 

Infine stiamo lavorando anche per contrastare la distruzione deliberata del patrimonio culturale e religioso in Siria e nell’Iraq del Nord da parte di gruppi terroristici. Una distruzione che dimostra la determinazione a eliminare ogni traccia di diversità a colpire i diritti umani, la dignità delle persone, le tradizioni delle comunità minoritarie.

Pochi giorni fa una risoluzione promossa dall’Italia su questo tema è stata accolta dal Consiglio Esecutivo dell’UNESCO e sottoscritta da numerosi paesi tra cui i paesi dell’Unione Europea e i 5 Membri del Consiglio Permanente di Sicurezza dell’ONU. È una questione simbolica, io credo, ma anche questa fa parte di un lavoro per difendere la presenza pluralistica delle nostre comunità in quella regione. 

Cari amici, ho ancora negli occhi le immagini dei rifugiati cristiani, accolti nella chiesa di Mar Elia, la chiesa Caldea nella periferia di Erbil: Padre Douglas e l’Arcivescovo Bashar Warda erano con me in quella visita.

La paura delle donne in quel campo profughi, che avevano paura dell’idea stessa di tornare a Mosul o nella Piana di Ninive dalla quale erano state allontanate, ma anche la speranza di Marian, una bambina che era nata due giorni prima del nostro arrivo in quel campo profughi, una dei cinque neonati del campo profughi della Chiesa di Mar Elia. 

Oggi dobbiamo avere il coraggio di rivolgerci a noi stessi, la chiamata di Dio ad Abramo, il Patriarca delle tre religioni, dell’ospitalità e del diritto di asilo. Questa chiamata è rivolta anzitutto all’Europa: 

Europa, abbi il coraggio di uscire dai tuoi orizzonti limitati dai pregiudizi, dall’egoismo che diventa incapacità di costruire il domani. Abbi il coraggio della verità nel guidare una risposta della Comunità internazionale che ristabilisca il Primato dei diritti e delle minoranze quale precondizione della coesistenza pacifica e dello sviluppo. 

Le vostre preghiere ed il vostro coraggio richiedono la nostra azione. 

Grazie

 

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