Rabino, Israel
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La gratuità al tempo del mercato globale
“Ogni generazione ha le sue sfide”, dicono i nostri saggi. Senza dubbio la mentalità di una società consumista appartiene alle sfide del nostro tempo. Da quest mentalità vengono sfidati i valori umani e religiosi.
Estremizzando, la situazione della mentalità consumistica odierna può essere descritta con le parole acute del Dr. Juergen Wilhelm, Presidente della Società Ebraico - Cristiana di Colonia, pronunciate durante la settimana della fratellanza:
“Compro, quindi sono”. L’uomo viene sempre più ridotto al suo ruolo di consumatore e alla sua utilità economica. I criteri propri del mercato già da tempo non valgono soltanto in ambito economico, ma si sono evoluti, diventando un criterio universale applicabile alla convivenza in campo sociale, culturale e politico. Ciò non viene neanche più vagliato criticamente; il mercato non sottoposto a limiti per molti è un ideale. Quanto meno viene concepito come unico criterio di misura del valore delle cose. Ogni discussione, ogni amore, gioco, ogni tenerezza (...) è una merce, che qualcuno offre in cambio di qualcos’altro. Ogni uomo tiene aperto un conto di dare ed avere con gli altri, per il quale passano i rapporti umani – e questa è una perversione del pensiero!
L’esempio seguente traduce questa mentalità nel linguaggio, intriso di satira, dello scrittore Ephraim Kishon: con la mancia, e a seconda del suo importo, il cliente compra la buona disposizione ed il sorriso benevolo di chi gli effettua un servizio.
Un aneddoto che riguarda la Signora Pollack von Parnegg, una nuova ricca della Vienna dell’inizio del XX secolo, racconta che suo marito, visitando una pinacoteca, le abbia detto: “se ti piace un quadro, dì pure che è bellissimo, incantevole, meraviglioso, ma, per favore, non dire in continuazione ‘impagabile’!”
Cosa dice l’ebraismo della gratuità? Ci sono “cose senza prezzo”? Deve e può essere tutto misurato con il denaro? Quale ruolo hanno il denaro ed il patrimonio? In che relazione si trovano con altri valori? Sono essi, in sé, considerati positivamente o negativamente?
Nelle fonti ebraiche troviamo riferimenti in grande quantità e variabilità. Innanzitutto però possiamo constatare univocamente quanto certamente non è una sorpresa: “il denaro non è tutto”. A chi è di diverso parere, Re Davide, nei salmi, rivolge le seguenti parole (49, 7-18): “Essi confidano nella loro forza, si vantano della loro grande ricchezza ...Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita: non sarà mai sufficiente....Ma nella prosperità l'uomo non dura: è simile alle bestie che muoiono. Come pecore sono destinati agli inferi, scenderanno a precipizio nel sepolcro, quando muore, infatti, con sé non porta nulla, né scende con lui la sua gloria”. Anche nella tradizione orale, nei detti dei Padri, viene rafforzato questo punto di vista. Colà (6, 9), viene chiesto a Rabbi Jose, dietro lauto compenso, di trasferirsi in un nuova località, per insegnare la torah nel luogo del suo nuovo domicilio. La sua risposta è univoca: “Anche se tu mi dessi tutto l’oro, l’argento, le pietre preziose e le perle del mondo, io abiterò soltanto in un luogo della Torah! Sta infatti scritto nel libro dei Salmi (119, 72): ‘Bene per me è la legge della tua bocca, più di mille pezzi d'oro e d'argento’. E non solo questo: nell’ora in cui l’uomo muore non l’accompagnano né argento né oro, ma soltanto la (sapienza della) Torah e le buone opere.
Riassumendo: il denaro non deve essere sopravvalutato! Non ci accompagna nel mondo futuro, non lega l’anima all’eternità. In generale, i soldi non possono essere visti come fine, ma solo come mezzo. Le scritture ebraiche spesso ammoniscono di non fare della ricchezza il contenuto e lo scopo della vita. Nel libro del Qoelet, Re Salomone descrive come anche la ricerca del benessere, della ricchezza e dei piaceri terreni siano soggetti alla caducità e alla vanità dell’esistenza umana (capitolo 2). Al di là di ciò, la ricerca della ricchezza sfocia in una infinita e inappagabile caccia ad avere sempre di più (5, 9): “Chi ama il denaro non è mai sazio di denaro”. Inoltre, un patrimonio comporta anche degli svantaggi, come risulta anche dai detti dei Padri: “Chi accresce le proprie ricchezze, accresce anche le preoccupazioni”.
D’altro canto occorre sottolineare che l’ebraismo non vede nel possesso di beni in sé nulla di negativo, purché siano rispettate le giuste priorità e sia fatto per scopi positivi. Un reddito dignitoso e onesto e una fonte di guadagno chiara e regolare non sono soltanto parte integrante delle nostre preghiere quotidiane e delle preghiere particolari all’inizio di ogni mese ed anno ebraico, ma anche un principio concreto nella educazione dei figli – insegnare ai propri figli un mestiere onesto. Molti dei comandamenti della Torah possono essere adempiuti solo se si possiede qualcosa, a cui è possibile applicarli: un campo di grano per le imposte per i sacerdoti, alberi di frutta per le offerte per i poveri, una casa per le prescrizioni che riguardano la sicurezza come l’uso di ringhiere, nonché l’applicazione di una Mezuzzah, una fattoria per le offerte di bestiame e per tutte le prescrizioni che riguardano gli animali, un vestito per le proibizioni dell’uso di stoffe diverse e per l’applicazioni di filatteri, denaro per la beneficenza, ecc… soltanto per fare alcuni esempi.
Diverse leggi e diversi comandamenti ci ricordano che il possesso ed il patrimonio non possono essere snaturati fino a diventare scopo e contenuto della vita. Abbiamo menzionato le imposte: l’obbligo di pagarle spesso viene fatto ribadendo anche che D-o è l’Eterno, o, meglio, l’origine di tutto ciò che esiste. Ciò è ancora più esplicito nel comandamento di sospendere il lavoro dei campi ogni settimo anno, con la seguente motivazione (Lv 25, 23): “la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti”.
Con gli obblighi connessi al possesso dei beni, D-o ci ribadisce costantemente che siamo “Amministratori” dei suoi possedimenti. Esempio di tale obblighi è la necessità di tenere sempre in considerazione “i suoi”, i bisognosi.
Ciò è particolarmente evidente nella seguente prescrizione: durante lo shabbat a noi ebrei è proibito spegnere il fuoco, anche nel caso che la propria casa bruciasse! Piuttosto che trasgredire questo comandamento bisogna far bruciare la casa! In genere non si mette in pratica questa norma, in quanto in un incendio spesso vengono messe in pericolo, anche indirettamente, delle vite umane, e questo giustifica lo spegnere il fuoco. Tuttavia, il fatto stesso che esiste questa norma, e la possibilità che il possessore di una casa debba rimanere senza far nulla mentre questa brucia completamente, senza poter intervenire, solo per non contravvenire alla legge dello shabbat, ci fa capire quali siano le priorità della religione: anche l’osservanza di un solo comandamento riguardante lo shabbath può valere più di tutto il nostro patrimonio!
Nell’ambito dei rapporti interpersonali, questo principio può essere ben illustrato in base ai seguenti comandamenti. La Torah ci impone di non vendicarci e di non conservare nulla nel nostro cuore (Levitico, 19, 18). Cosa si intende con ciò? I nostri saggi ce lo spiegano così (commento di Rasci a questo passo): Supponiamo che “A” un giorno chieda in prestito un ascia al suo vicino di casa “B”. Questi, però, respinge la richiesta e non è disposto a prestargli l’ascia. Il giorno dopo il vicino di casa “B” arriva da “A” e vorrebbe da lui una pala in prestito. Comprensibilmente, sarebbe nella natura umana reagire come segue: “Ieri non mi hai voluto prestare l’ascia, quindi oggi non ti presto la pala”. Questa reazione è proibita dalla Torah, in quanto è proibita la vendetta. Quindi il vicino di casa “A” deve prestare la pala a “B”, nonostante il rifiuto di quest’ultimo del giorno prima. Ma non solo questo. La Torah proibisce anche ad “A” di far arrivare a “B” il seguente messaggio, mentre gli passa la pala: “Guarda, non sono come te. Ieri mi hai negato la tua ascia, io invece ti presto la pala…” Ciò è proibito dalla Torah, in quanto questa impone di non conservare nulla nel cuore! Ma come è possibile che la Torah esiga dagli uomini tale grandezza d’animo e tali sentimenti elevati, tale autocontrollo dei sentimenti naturali? Non sarebbe giusto almeno far presente al vicino di casa il suo errore?
La risposta sta in quanto abbiamo esposto sopra e nel titolo di questo panel: gratuità. Fare del bene ad un vicino, prestargli qualcosa, e con ciò rinforzare i legami d’amicizia e la comunione dei cuori, tale azione è in sé veramente buona, perche è gratuita. Non si tratta in ciò della grandezza del favore o dell’importo con il quale si aiuta. Si tratta di qualcosa di molto più grande – della bontà del cuore. Tale bontà del cuore deve essere parte della nostra personalità e congiungerci ai nostri prossimi, senza che poniamo condizioni. Solo in questo modo possono nascere veri rapporti tra le persone: attraverso la bontà del cuore incondizionata – che viene anche chiamata amore.... Se è questo amore a prevalere, allora non importa, nel rapporto tra i due vicini di casa, se l’altro vicino il giorno prima si è comportato in maniera esattamente contraria ad esso, perché questo sarà il problema dell’altro. L’altro non ha ancora capito quale sia la qualità della vita che, personalmente, va a perdere non essendosi ancora adeguato a questa bontà del cuore. Il modo migliore per farglielo capire è mediante comportamenti che gli siano da esempio. Se vede che, nonostante il proprio comportamento sbagliato, il suo desiderio viene esaudito di cuore, in modo incondizionato, senza se e senza ma, sarà egli stesso a capire la differenza con il proprio comportamento e la propria mancanza. La religione ha il compito di trasmettere conoscenze importanti alla generazione presente, affinché i valori vengano nuovamente posti sopra il modo di ragionare economico. Se vogliamo andare incontro ad un mondo intatto e migliore, che sia stabile ed orientato al futuro, dobbiamo farci guidare ed ispirare da questi insegnamenti.
Un aneddoto, con cui possiamo concludere appropriatamente questo intervento, è il seguente: Un uomo va dal cardiologo più conosciuto della città, per farsi fare un trattamento da lui. Dopo aver concluso con successo il trattamento, gli viene presentato un conto salatissimo. A tal punto l’uomo ammette di essere povero in canna e di non essere in grado di pagare neanche una frazione di tale conto. Il medico reagisce con rabbia: “Perché venite allora proprio dallo specialista più caro della città?” Al che il poveraccio gli risponde: “Sapete, quando si tratta della mia salute, niente è troppo caro...”
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