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4 Octobre 2010 16:30 | Casal del Metge - Sala d'Actes

Barcellona 2010 - Intervento di Shoten MINEGISHI



Shoten Minegishi


Non pensate che io me ne stia qui seduto tutto impettito ed orgoglioso nell’essere un religioso. Sono venuto qui a Barcellona dal lontano Giappone, impiegando 15 ore e mezza, ma mi vergogno un po’ a stare dinanzi a voi come un religioso. Questo perché nel nostro mondo imperversano problemi, molti dei quali forse hanno come causa proprio la religione. 
 
In Giappone, nonostante si succedano molti governi, le elezioni vengono fatte normalmente, i risultati elettorali vengono interpretati come volontà del popolo e vengono rispettati senza porsi alcun dubbio. Tuttavia ci sono Paesi in cui non solo vengono messe a repentaglio le elezioni, ma le persone contrarie alle elezioni, fanno di tutto per eliminare i candidati avversari con attentati dinamitardi o con l’utilizzo delle armi da fuoco. Se all’origine di questi atti violenti non ci fossero solo motivi politici, economici o etnici, ma anche religiosi, allora sarebbe una cosa gravissima.
Se una religione permettesse che gli uomini si odino a vicenda o se ci fosse all’interno di una religione una forza che la spingesse ad attaccare un’altra religione, allora significherebbe che nasconde qualcosa di anti-religioso e ci dovrebbe spingere ad una riflessione critica. 
 
Guardando indietro nella storia, possiamo constatare che non c’è stato un attimo in cui non ci siano state guerre e conflitti. Ecco perché è naturale che aspiriamo costantemente alla pace. 
Nonostante le religioni abbiano il compito di gettare le basi per la pace, in alcuni momenti della storia, loro stesse a volte sono state di intralcio alla realizzazione della pace e causa di conflitti. Si può affermare che ancor oggi, come lo è stato nel corso della nostra storia, possono esserci conflitti tra le religioni, all’interno della stessa religione o tensioni tra le varie correnti della stessa religione. Questo significa che le religioni hanno al loro interno una molteplicità di problemi. 
Noi religiosi dobbiamo vergognarci di questa realtà e sono convinto che abbiamo un’enorme responsabilità. Ecco perché oggi, mai come prima, siamo chiamati a superare i diversi modi di pensare (insegnamenti) delle “diverse religioni” per sforzarci di trovare terreni comuni, terreni che si possono coltivare solamente continuando ad incontrarci e parlandoci.
 
Nel testo sacro Buddismo Mahayana, il Sutra del Loto, c’è scritto che “noi volevamo ardentemente venire al mondo, abbiamo pregato così ardentemente di venire al mondo che siamo nati in questo mondo”.  Io sono convinto che nel momento in cui facciamo il nostro primo vagito, in realtà ci “dimentichiamo cosa avremmo voluto fare in questo mondo una volta nati”. Ecco perché considero la “vita come un viaggio alla ricerca di ciò che volevamo realizzare su questa terra una volta nati”.
 
Proprio come è scritto ne “Il Simposio (o “Il Convito”)” di Platone, voglio credere che siamo nati su questa terra affinché ci amassimo reciprocamente, perché non posso pensare che siamo nati per odiarci gli uni con gli altri. 
Cerchiamo di ragionare insieme. 
Credete che siamo nati su questa terra per odiare i nostri padri e le nostre madri? Oppure per odiare i nostri fratelli e le nostre sorelle? O ancora: per odiare i nostri vicini di casa o i compagni di scuola? No. Credo proprio di no.
Il compito delle religioni deve essere quello di insegnare agli uomini l’importanza di amarsi reciprocamente. In altri termini e in un senso più lato le religioni hanno il potere di unire i cuori degli uomini. 
In giapponese lo stato in cui i cuori sono tenuti uniti viene detto “WA”(『和』).  L’ideogramma che lo rappresenta è composto da un “hen” (n.d.t. il radicale sinistro di un ideogramma) che indica un fascio di riso (『稲』) e da un “in” (n.d.t. la variabile destra di un ideogramma) che indica la bocca. Questo ideogramma quindi indica chiaramente che il proprio fascio di riso non è da tenere stretto solo per sé, ma è da condividere e da mangiare insieme agli altri. Proviamo a paragonarlo con un bel piatto da portata di una festa. Vorremmo mangiarlo a più non posso, ma guardandoci intorno, ci accorgiamo che ci sono molte persone a questa festa. Allora ci tratteniamo e prendiamo solo 1/3 di quello che in  realtà avremmo voluto e passiamo il piatto da portata alla persona accanto.  Questo è lo spirito del “WA”. 
 
Purtroppo gli esseri umani per poter vivere tendono a diventare egocentrici. Ma se continuassimo su questa strada, non faremmo altro che combatterci gli uni con gli altri e finiremmo per estinguerci. Quindi, raggiunto il livello minimo di autonomia, è necessario rivolgere i nostri sguardi verso gli altri. Osservando gli altri, pensiamo a quello che possiamo prendere noi stessi, azione che in giapponese si dice “enryo”(『遠慮』)ossia “riflettere in modo lungimirante”. Inoltre è necessario avvicinare i nostri cuori al pensiero dell’altro, cercare di coglierlo e sforzarci per conformare i nostri cuori a quello degli altri, atto descritto come quello di “far arrivare” il proprio cuore a quello dell’altro, ossia significa avere una grande premura (n.d.t. il termine può essere tradotto anche con “compassione”, ma ha un’accezione positiva e costruttiva) per l’altro.
Siamo chiamati a realizzare un mondo che, se pur nell’affermazione delle diversità, sia unito perché siamo premurosi verso gli altri e ci aiutiamo reciprocamente. 
 
Uno degli ideali zen è quello di “giocare in un mondo puro” (“yu-gi zanmai” – pron. “yughi z….” 『遊戯三昧』) che espresso alla maniera occidentale diventerebbe “vivere soddisfatti dell’amore attraverso l’autolimitazione”. Credo che ci sia qualcosa in comune con la vita monastica di molti monasteri cristiani, quindi un concetto facilmente comprensibile, ma che indica che è necessario accontentarsi per il proprio e l’altrui bene.
Mentre per quanto riguarda le opere, è assolutamente necessario dedicarsi (servire) agli altri e a tutto. Infatti, per poter sopravvivere in un ambiente spietato, gli uomini devono limitare sé stessi e allo stesso tempo unire le forze. Ecco perché l’accontentarsi (o sopportazione) stava alla base della formazione di una civiltà. Ed essendo la religione la radice della cultura, allora si può benissimo affermare che la limitazione sta alla base della religione.
Siamo chiamati con forza alla realizzazione della nostra felicità e della felicità di tutti con la limitazione del proprio ego, un ego che continua ad ingigantirsi in un’epoca caratterizzata dalla società capitalista fortemente globalizzata. 
 
Dunque noi uomini di religione dobbiamo limitare i nostri desideri, prima di tutto, e limitare e moderare le nostre fedi. Mi spiego. Per me la moderazione della propria fede significa “non ritenere che la propria religione sia l’unica venerabile e santa”.
Ogni religione ha un proprio particolare valore, e, come le persone, deve essere giusta. 
Sono convinto che se gli uomini di religione ritenessero una religione migliore delle altre, ritenute quindi inferiori, allora non ci sarebbe dialogo tra le religioni. 
Dialogo non significa mischiare le diverse religioni, ma andare a fondo di ognuna delle religioni per una migliore comprensione di ciascuna di esse ed è l’unica via di salvezza.  In altri termini, il dialogo è uno degli strumenti atti a rivedere ognuna delle religioni nelle loro origini in una società secolarizzata. 
Inoltre, dovendo “vivere soddisfatti dell’amore attraverso l’autolimitazione”, sia il singolo individuo che le altre persone devono poter vivere soddisfatti di questo amore.
 
L’uomo di religione non deve trascorrere le sue giornate in tranquillità, ma deve cercare le cause che stanno alla radice dei problemi che affliggono il mondo e gli esseri umani, deve avere un occhio di riguardo alle altre persone sia più prossime che lontane, e deve dare il suo aiuto sia a livello mondiale che a livello locale. In altri termini non deve “fuggire nelle parole” : ossia, sostenere che nella propria religione esistono delle belle parole o frasi che possono essere di soluzione ai problemi, chiedere di “rispettare lo spirito insito a queste parole o frasi” per poi non far nulla. 
Nel Buddismo si dice che “l’uomo diventa un buddha nel momento in cui agisce”, ossia il proprio io non esiste se non nel momento delle opere. Quindi è fondamentale dedicarsi agli altri.
 
Sono passati 26 anni da quando ho conosciuto la Comunità di Sant’Egidio, ma solo dopo 20 anni mi sono permesso di chiedere ad una ragazza della comunità perché fosse entrata in comunità.  Lei mi rispose: “Sono cresciuta ascoltando la Bibbia, ma nessuno della mia famiglia, tanto meno i preti la seguivano nella vita di tutti i giorni. La Bibbia veniva solamente letta, ma non praticata. E quando mi sono accorta che c’erano effettivamente persone che la mettevano in pratica, quelle erano della Comunità di Sant’Egidio. Ecco perché sono entrata a farne parte”.
 
Non solo a Roma ma in tutti i posti in cui è presente, la Comunità di Sant’Egidio fa molte opere di volontariato aiutando i senzatetto, i malati di mente, le persone anziane e tutte quelle che si trovano in difficoltà. Non solo. Si riuniscono per pregare insieme e approfondiscono e continuano la loro vita di fede insieme alla società. Se da una parte portano avanti queste attività di volontariato, dall’altra organizzano questi incontri dove si possono incontrare uomini di fede da tutto il mondo per poter pregare insieme per la pace. 
 
Fin da giovane riservavo molti dubbi sul fatto che al mondo esistessero una molteplicità di religioni, che non facevano altro che sbandierare il loro insegnamento. Ho riflettuto molto a lungo su questo e ho anche passato 2 anni di vita monastica in un monastero cristiano come monaco buddista, imparando così su questo tipo di vita.
 
Oltre alle molte conoscenze che ho fatto, ho imparato molto dallo scambio che ho con la Comunità di Sant’Egidio e nel 2006 ho fondato un Istituto per il Dialogo Interreligioso in Giappone. Ogni mese teniamo una tavola rotonda e lo scorso anno è stata la 40° volta. In queste tavole rotonde partecipano solitamente musulmani, cattolici, protestanti, docenti universitari di università di ispirazione buddista e giornalisti. Le tavole rotonde sono seguite poi da un tempo dedicato alle domande. Sono convinto che sia questa nostra epoca che chiama le religioni al dialogo per poterle approfondire. 
 
Il dialogo interreligioso da una parte chiede che venga approfondita la conoscenza delle altre religioni, mentre dall’altra che vengano affrontati i vari problemi che affliggono la nostra epoca. Significa anche cercare di capire come la propria religione sia collegata con le altre, ma è allo stesso tempo un modo per capire più a fondo la propria religione.  Credo si possa affermare che una più profonda comprensione della propria religione sia anche un viaggio nel quale il proprio ego si apre al mondo e prende coscienza del legame che ha con le altre persone della terra. 
 
Prima ho detto che la “vita è come un viaggio alla ricerca di ciò che volevamo realizzare su questa terra una volta nati”, e credo che siamo nati su questa terra perché ci amassimo gli uni con gli altri. 
La vita è un viaggio che porta a capire questo, un viaggio durante il quale ci sono incontri, conoscenze nuove, si presta attenzione agli altri… tutte cose che portano alla trasformazione sia del livello di comprensione della propria religione sia del proprio io. 
 
 Dopo poco tempo che iniziai questa mia vita monastica, durante un dialogo con il mio maestro gli chiesi quale fosse la differenza tra una persona che ha scelto di fare una vita monastica e un laico che, pur vivendo la sua vita sociale, vive la sua fede. Mi rispose che in realtà non c’era alcuna differenza perché sia gli uni che gli altri lasciano da parte le proprie questioni per aiutare gli altri. 
 
Ho iniziato il mio discorso impostandolo sulla responsabilità degli uomini di religione in questo mondo secolarizzato, ma se non vi è una differenza sostanziale tra i religiosi e i laici, nel momento in cui si prodigano per gli altri, tralasciando i problemi personali, allora credo che si possa parlare di responsabilità di tutti gli uomini di fede verso questo mondo secolarizzato.
Perché tutte le persone possano diventare felici, è necessario interessarsi agli altri, incontrarsi, crescere spiritualmente proprio nella limitazione del proprio io ma soddisfatti di quel che si ha/è, ed è così che si può costruire un mondo che sia unito pur con le sue diversità. 
 
Camminare verso questo obiettivo: questo è il compito che viene affidato a noi, uomini di oggi. E vorrei esprimere il mio più profondo rispetto verso tutte le persone che “cercano la via”, le “persone spirituali”. 
 
Grazie per la cortese attenzione. 
 


Barcelona 2010

Mensaje
del Papa
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