Comunità di Sant'Egidio, Italia
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Il quadro dell’immigrazione nel contesto Europeo1 :
Ricordo che nel 2010 a Barcellona, proprio in una edizione come questa dell’Incontro di Uomini e religioni organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, cercai di introdurre nel dibattito relativo al fenomeno migratorio e ai possibili scenari futuri una domanda che certo non voleva essere retorica e tanto meno provocatoria. La ripropongo: le migrazioni sono un fenomeno inevitabilmente scritto nel futuro del nostro continente europeo?
I dati che, allora, avevo a disposizione lasciavano (solo) intuire per il contesto Europeo, e quello italiano in particolare, uno scenario che ai più sembrava di pura fantasia: cioè una diminuzione drastica della presenza straniera.
A distanza di due anni la conferma sembra essere arrivata mostrando come nelle rotte migratorie, quella europea sia divenuta una destinazione molto meno ambita che nel passato.
In Italia questa diminuzione è stata eclatante. Secondo l’ISTAT, netta è stata la diminuzione di nuovi ingressi di cittadini stranieri non comunitari: durante il 2011 sono stati rilasciati 361.690 nuovi permessi di soggiorno. “Quasi il 40% in meno rispetto all'anno precedente”2 . Questo dato è ancora più significativo se si considera che la diminuzione è avvenuta nell’anno in cui i flussi di ingresso hanno subito un’impennata a causa della cosiddetta “primavera araba”: 50 mila profughi provenienti dalla Tunisia e dalla Libia. Si consideri che, dal 1 gennaio al 30 agosto 2012, sono sbarcati in Italia un numero che non è riuscito a raggiungere le 6 mila persone. A Lampedusa, considerata la porta dell’Europa, gli arrivi sono stati 2.329. Cioè un numero irrisorio e senza che sia stato necessario alcun provvedimento o accordo di respingimento.
Ma c’è ancora un altro aspetto da considerare. Una cara amica della Guinea Bissau mi raccontava non molti giorni fa che nel numero della corale della cattedrale di Bissau, da un po’ di tempo, ci sono alcuni nuovi ingressi: sono portoghesi. Giovani portoghesi che tornano nella ex-colonia ma come immigrati per motivi di lavoro.
Ma i portoghesi di oggi cercano lavoro anche in altre ex colonie africane: ad esempio in Angola e in Mozambico. Il Mozambico – a 20 anni dagli accordi di pace che proprio quest’anno si celebrano- che con il suo 7% di crescita economica annua sta diventando la meta ambita dei flussi migratori provenienti da varie aree geografiche: oltre che dal contenente africano e dal già citato Portogallo c’è il Pakistan, il Bangladesh et.
I giovani spagnoli, anche loro in sofferenza per la crisi, provano ad andare nei paesi dell’ America latina, ma anche in Marocco. Marocco, solo per inciso, che per la prima volta, nei mesi scorsi, ha dato il via ad una regolarizzazione dei cittadini stranieri che lavorano sul suo territorio.
I rapporti OCSE registrano questi spostamenti ma - ci dicono- che sono numeri esigui, ad eccetto dei flussi in uscita irlandesi che sono invece molto consistenti. Fa effetto, tuttavia, vedere questo nuovo volto dell’immigrazione3 .
In sintesi. Rispetto al passato la situazione dei flussi migratori ha subito due profondi cambiamenti: ci sono pochi arrivi ed è iniziato un flusso in uscita degli immigrati stanziali e dei giovani cittadini europei. Vorrei invitare a riflettere sul fatto che le risorse umane più vitali della società europea cominciano ad andarsene, i giovani immigrati e i giovani europei.
Per l’immigrazione il nodo resta quello indicato dal titolo del Panel di oggi: dall’emergenza all’integrazione.
In alcuni paesi europei siamo, non alla seconda, ma alla terza, alla quarta generazione e, a livello di mentalità dell’opinione pubblica e di chi amministra, si resta invece ancora intrappolati dalle logiche emergenziali, dalle politiche di contenimento e di controllo del fenomeno. La rivista italiana “Libertà civili” ha pubblicato i risultati di una inchiesta di opinione realizzata nel 2011 da una importante agenzia di ricerca inglese. Il 52% degli Europei e – per inciso il 53% degli statunitensi - continuano a ritenere l’immigrazione non un’opportunità, ma un problema4 .
Nella casa europea i cittadini stranieri sono collocati in una sorta di limbo, restano perennemente sulla soglia. La storia che voglio brevemente raccontare non è eccezionale, in Italia è, purtroppo, la norma. Moun Moun di origine del Bangladesh è arrivata in Italia quando aveva tre anni. È da allora, che conosco lei e la sua famiglia, in un rapporto di intensa amicizia nato al nostro centro di accoglienza della Comunità di Sant’Egidio. A 14 anni Moun Moun ha iniziato a dare il tormento al padre: voleva avere a tutti i costi la cittadinanza italiana. Voleva essere come gli altri ragazzi della sua età. Moun Moun voleva, pretesa assurda, essere italiana. Raccoglie documenti, aiuta il padre, prepara la domanda, fa tutto quello che è richiesto dalla legge (procedura assai macchinosa).
La cittadinanza arriva. Il padre ad agosto 2012 giura e diventa italiano, i fratelli più piccoli di Moun Moun diventano italiani, la madre diventerà italiana tra meno di un anno. Moun Moun no. Non ha potuto giurare sulla costituzione italiana perche è divenuta maggiorenne, non fa più parte del nucleo famigliare. La procedura per la decisione sulla domanda è durata 5 anni. Deve ricominciare da capo. Anzi peggio. Moun Moun studia all’università e non può dichiarare i tre anni di reddito autonomo come richiesto dalla procedura. Neanche a dirlo, il padre, che è un piccolo imprenditore con un buon reddito e ha casa di proprietà, non può dichiarare per la figlia a suo carico, perché, a differenza dei genitori italiani, quelli stranieri possono avere a carico i figli non fino a 26 ma solo fino ai 18 anni. Mi fermo qui. Potrei continuare a descrivere l’assurdità di una giovane, bella e studiosa (italiana a tutti gli effetti) che non può dire di essere cittadina perché, di fatto, non lo è.
Uscire da un’idea di emergenza significa anche vedere i dati che ci indicano un percorso positivo di integrazione, già in atto. In Europa oggi sono presenti 33 milioni cittadini stranieri, comunitari e non comunitari (6,5 %). Se aggiungiamo il numero di coloro nati all’estero e divenuti cittadini di uno dei paesi dell’Unione arriviamo a oltre 50 milioni (9,5%). Stiamo parlando cioè di un fenomeno strutturale dal punto di vista demografico e, soprattutto, economico.
In molti paesi europei sono stati fatti dei grandi passi avanti sul tema dell’integrazione, ne indicherò tre dati: l’acquisizione della cittadinanza, le seconde generazioni, i matrimoni misti.
1. L’acquisizione della cittadinanza5
In Europa nel 2009 (ultimo dato disponibile) hanno acquisito la cittadinanza 776.000 persone immigrate. I paesi che guidano la classifica dei riconoscimenti sono soprattutto la Gran Bretagna, (oltre 200.000), la Francia e la Germania.
2. Le seconde generazioni6
In termini assoluti in Europa ci sono 10 milioni di giovani adulti tra 25 e i 54 anni che hanno uno o tutte e due genitori nati all’estero. Non è possibile affrontare questo che si presenta come un aspetto molto delicato e decisivo ma voglio solo sottolineare le dimensioni di un gruppo di cittadini adulti, nati in Europa, con uno o due genitori di cultura lingua e paese diverso da quello dove vivono.
3. I matrimoni misti7
Questo è un indicatore molto utile che misura il livello sociale di integrazione. Nel periodo 2008-2010 un matrimonio ogni dodici in Europa è stato un matrimonio misto. Sottolineo che per matrimonio misto si intende solo tra un cittadino nativo del paese dell’unione e un cittadino nato fuori. Sono esclusi i matrimoni tra due cittadini provenienti da differenti paesi e quelli di stranieri nati in Italia.
Questi in sintesi e in modo molto incompleto sono i dati che ci dicono che la presenza straniera in Europa è strutturale e necessaria.
La crisi: una opportunità per riflettere
Abbiamo forse sprecato delle occasioni. Quando penso alla grande chance offerta dalla presenza di cittadini immigrati nella nostra ricca (lo si può ben dire anche oggi nonostante la crisi: ricca) Europa penso che abbiamo, per paura,- per paura di cambiare- dilapidato un patrimonio (anche economico) preferendo il confortevole ma anche molto faticoso rifugio della chiusura e del’autosufficienza. Dove è finito quel tesoro europeo di storia, di benessere, di valori? Di simpatia anche. Mi colpiva qualche giorno fa la notizia apparsa su un giornale inglese che rimproverava gli italiani di essere “diventati tristi”8 .
La crisi economica porta con sé tanti aspetti problematici che non vanno certo sottovalutati. Come non va minimizzato il peso di difficoltà che tante persone vivono con drammaticità ed incertezza. Tuttavia, ed è questo un aspetto da accogliere positivamente, la crisi ci costringe tutti ad una serietà ed a una sobrietà maggiore. L’integrazione non è solo questione di flussi o di politiche della sicurezza. È questione di civiltà e di lungimiranza. Alla presenza straniera è legato a doppio filo il dinamismo di società e di economie altrimenti bloccate.
Mi sembra significativo l’esempio delle politiche che sta attuando il Marocco che offre borse di studio agli africani sub sahariani, è un modo per investire su giovani formati: alcuni torneranno nel proprio paese altri resteranno in Marocco.
Gli esempi che si possono fare in questo senso sono numerosi. Ne scelgo uno che mi sembra significativo di questo riconoscimento reciproco che è integrazione. Andrea Riccardi, nel suo ruolo di ministro per l’integrazione e la cooperazione ha incontrato molte comunità straniere. Significativo è stato l’incontro con la Comunità Sikh. Il Ministro Riccardi nel suo saluto ha rintracciato i legami storici che ci legano ricordando anche il contributo che i soldati Sikh dell’esercito inglese, diedero durante la seconda guerra mondiale per liberare l’Italia e l’Europa dal nazismo e dalla guerra. Dopo qualche settimana mi hanno contattato i responsabili Sikh: stavano organizzando una sorta di pellegrinaggio a Cassino presso il cimitero della seconda guerra mondiale. Volevano vedere le tracce di una storia comune che loro non conoscevano, e che noi italiani abbiamo dimenticato. Integrazione è anche questo. È ricostruire le tracce e i fili di una storia comune e di una solidarietà che ci unisce.
La prima scelta da fare con decisione e quindi quella della consapevolezza. C’è un gap da colmare: a livello di dibattito politico si è fermi a discutere se far entrare o meno i cittadini stranieri quando il problema è, piuttosto, come incentivare e trattenere i cittadini stranieri e i gli stessi giovani europei perche non se ne vadano. come recentemente ha rilevato un rapporto OCSE e una comunicazione della Commissione Europea9 .
L’accoglienza non è un cedimento ai barbari è piuttosto la via necessaria per non imbarbarire nella chiusura e nella paura come la lucida ed efficace analisi di Todorov propone quando dice: “riconoscere la pluralità dei gruppi, delle società e delle culture umane, ponendosi sullo stesso livello degli altri, è proprio della civiltà”10 . Mi sono tornate in mente queste parole quando a dicembre di quest’anno (nel 2011) a Firenze, dopo la tragica strage di senegalesi ad opera di un italiano , le cronache giornalistiche riportavano i commenti apparsi sul web, deliranti di fanatici che plaudivano l’autore come un “eroe bianco perito nella guerra multietnica”. Se è guerra non è guerra tra italiani e stranieri, ma tra la civiltà e la barbarie: la paura è ciò che rischia di renderci barbari.
Il libro della Genesi racconta di come un giovane ebreo, Giuseppe, straniero e schiavo in terra di Egitto, seppe interpretare i sogni angosciosi del faraone. È un brano biblico molto conosciuto. Sulle rive del Nilo, in sogno, il faraone vede pascolare dapprima sette vacche grasse e poi vede salire su sette vacche magre e molto brutte di forma che divorano le vacche grasse. Nel sogno successivo sette spighe secche, vuote e arse dal vento inghiottono sette spighe piene e belle. Come Giuseppe interpretò il sogno è noto: il faraone aveva nel suo sogno previsto una grande carestia che avrebbe “consumato la terra”. Una crisi economica, così la possiamo definire: dura, lunga, che avrebbe divorato, inghiottito e fatto dimenticare il tempo dell’abbondanza.
Il consiglio saggio di Giuseppe è stato quello di pensare alla carestia nel tempo dell’abbondanza, alla povertà nei tempi della ricchezza. È significativo come il potente e lungimirante faraone d’Egitto accolga le parole di un giovane, straniero e schiavo.
E ancora più significativo che affidi a lui, alla sua intelligenza, alla sua iniziativa, alla sua responsabilità il compito impegnativo di uscire fuori da un periodo che si preannunciava così duro e angoscioso. Anche se utilizzano un altro linguaggio, alcuni documenti della Commissione Europea richiamano la stessa preoccupazione quando affermano che non bisogna dimenticare “i contributi positivi dell’immigrazione affinchè l’Unione Europea possa crescere e mantenere la propria prosperità”11
Mi sembra questa una indicazione concreta. Mi sembra sia stata la scelta che la Comunità di Sant’Egidio ha voluto fare negli anni dell’abbondanza, raccogliendo un patrimonio di umanità, di amicizia, che oggi in un tempo di crisi, scarico di valori e di speranza, ci permette di guardare al futuro con la forza di una visione.
Vorrei concludere citando Carlo Maria Martini, uomo di Chiesa e del Vangelo, che ha insegnato a tanti uomini e donne del nostro tempo a non avere paura delle domande difficili. Ricordo un suo contributo alla fine degli anni 80 proprio sui temi dell’immigrazione “La questione degli immigrati – diceva- acquista un’altra valenza e non soltanto di una urgenza che interpella la carità cristiana: assurge al valore di vero e proprio segno dei tempi”. La questione immigrazione è un vero e proprio segno dei tempi: a distanza di più di 30 anni questa espressione è più che mai vera.
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