Comunità di Sant'Egidio, Benin
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Sono molto felice di trovarmi in questo panel con questi illustri relatori venuti dalle varie estremità del mondo. Lo sono ancora di più per questa grande occasione che mi è offerta di esprimere e condividere con voi lo sguardo di un giovane cristiano africano come me su questo tema interessante : Cercare Dio per ritrovare l’uomo.
A prima vista il tema sembra un po’ filosofico, soprattutto per noi africani per i quali per molto tempo, nel passato, Dio è sembrato così lontano e l’uomo così vicino. Nelle religioni endogene in Africa e specialmente nel Benin da cui provengo, effettivamente gli dei si ritrovano nei fenomeni naturali giudicati lontani, straordinari rispetto all’intelligenza umana, difficilmente comprensibili. E, anche per i cristiani, malgrado il fatto che a Dio Padre nostro si dia del tu nelle preghiere abituali, Egli restava tuttavia abbastanza distante nel quotidiano. Invece l’uomo era così vicino, grazie alla solidarietà africana di una volta. Per questo cercare Dio per ritrovare l’uomo poteva sembrare filosofico.
Tuttavia la realtà è cambiata molto col tempo perché ci sono stati numerosi cambiamenti sociali, economici ed anche religiosi in seno alle società africane. Questo cambiamento sembra rovesciare la realtà di una volta che ho appena descritto. Oggi, in apparenza, in Africa è piuttosto Dio quello che si trova così vicino e l’uomo quello che si allontana ogni giorno di più. Ci sono evidentemente sempre più credenti in Africa, nuove chiese che nascono e che fanno accettare la presenza concreta di Dio che agisce realizzando miracoli e guarigioni di malati. Ma d’altra parte, il fratello povero della strada non è più visto, l’anziano, la cui età fa paura invece di far rallegrare, è divenuto il demonio, lo stregone che costituisce il nemico che il credente deve vincere, e l’uomo s’allontana sempre più dall’uomo.
Ma per mia grande fortuna, in quanto giovane cristiano, con altri amici, attraverso l’incontro con la Comunità di Sant’Egidio, ho compreso in modo diverso la ricerca di Dio. Ho cominciato a cambiare prospettiva. Cercare Dio per me oggi vuol dire scoprire nell’uomo e nella donna degli amici e non fare di essi dei nemici o dei rivali. In ogni uomo, c’è un’immagine di Dio. Dio dice « facciamo l’uomo a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza » ci dice il libro della Genesi. Allora chi incontra Dio trova ineluttabilmente sul suo cammino il fratello o la sorella e nasce la Comunità. La lettura della Bibbia mi aiuta a comprendere questo legame molto stretto tra Dio e l’uomo. Si legge nella seconda lettera dell’apostolo Giovanni che « Se uno dice: "Io amo Dio", ma odia suo fratello, è bugiardo; perché chi non ama suo fratello che ha visto, non può amare Dio che non ha visto.». Cercando l’amore di Dio ci si rende conto che bisogna amare gli altri. E’ un dono che viene da Dio e di conseguenza non si può tenerlo per sé.
Noi abbiamo capito che bisogna lasciarlo operare secondo tutta la sua potenza liberatrice. In rapporto a questo, per noi giovani cristiani africani, incontrare Dio oggi vuol dire liberarsi da tante abitudini e culture che impediscono di incontrare gli altri, e di andare incontro ai fratelli e alle sorelle soprattutto coloro che sono deboli e poveri e che sono maggiormente nel bisogno. Cercare Dio è quindi per noi anche e soprattutto liberare l’uomo e la donna dalla catena della sofferenza che imprigiona la loro vita. Resto sempre così toccato dalla lettura del terzo capitolo degli Atti degli Apostoli in cui Pietro e Giovanni alla porta del tempio detta « bella », a Gerusalemme, davanti all’impotente che aveva domandato loro l’elemosina, contro ogni aspettativa, gli offrirono uno sguardo. « Guardaci », gli disse Pietro prima di completare, « Dell'argento e dell'oro io non ne ho; ma quello che ho, te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!». Egli l’ha preso per mano e questo impotente ha potuto alzarsi d’un balzo. Il nome potente di Gesù, il nome di Dio, è qui associato alla mano che alza, che accoglie. In effetti l’incontro con Dio ci fa accogliere gli altri. In altre parole, non si può pensare solo ad offrire oro o argento.
In realtà quando noi non alziamo gli occhi per vedere il mondo intorno a noi, diventiamo schiavi dell’argento e dell’oro. Sfortunatamente viviamo ancora sotto ciò che Andrea Riccardi ha chiamato a giusto titolo « la dittatura del materialismo ». Oggi la globalizzazione ha reso l’uomo e la donna africani molto simili agli altri, e ciò che conta ormai è « io e solo io ». Facebook, Tweeter e altri fingono di avvicinarci perché ci pongono nell’illusione di un mondo di amici. Si ha l’impressione di avere degli amici, di comunicare con gli altri, mentre si tratta in realtà, come ha ben detto il sociologo Philippe Breton, di una « non comunicazione », cioè l’illusione di una comunicazione. Ne è la prova il fatto che sono ancora questi mezzi di comunicazione gli strumenti più utilizzati dalla gioventù africana oggi per imbrogliare i più ricchi, chiedendo denaro attraverso delle mail, che segnano alla fine una divisione tra Africani ed Europei. Questi ultimi sono considerati vecchi colonizzatori che hanno derubato l’Africa e a cui bisogna rendere pan per focaccia oggi.
La forte solidarietà africana quindi si sgretola sempre più. In certi grandi agglomerati africani oggi, quando siete vittime di un incidente, invece di soccorrervi, i primi arrivati si occupano prima di tutto di vuotarvi le tasche. C’è come un’ossessione del denaro che rende tristi le persone e le guida verso una ricerca sempre maggiore di una soddisfazione materiale che in realtà resta sempre insaziabile. E così, si cammina come tenendo gli occhi a terra, non si possono più alzare gli occhi per vedere l’altro. Si è pronti a tutto per i soldi. Si è pronti alla violenza, all’insurrezione, al razzismo purché come conseguenza si abbia qualche tornaconto.
Ma io, con la Comunità di Sant’Egidio, ho avuto la fortuna di ricevere il coraggio di un nuovo umanesimo. E il primo appuntamento di questo umanesimo è quello con i più poveri, gli uomini e le donne che nessuno incontra. Questo umanesimo è divenuto per me una cultura vissuta in un senso evangelico. Giovanni Paolo II diceva giustamente che la fede dev’essere cultura. Per questo in Comunità, la nostra fede è divenuta una cultura dell’incontro quotidiano con l’altro, della protezione della dignità dell’uomo e della donna che vivono con noi, soprattutto i più poveri. E’ lo scandalo della gratuità in un mondo materialista. La gratuità è diventata il nostro segno distintivo. Fa di noi dei cristiani gioiosi nell’incontro quotidiano con Dio.
Sfortunatamente molti cristiani africani si pensano così poveri da non poter aiutare gli altri. In realtà, i cristiani africani oggi sono molto poco amici dei poveri. Ma il dialogo con Dio attraverso la lettura della Parola e la preghiera, ci fa scoprire il fratello che ha fame o che non è vestito. La Bibbia in effetti trasforma il nostro cuore e lo rende sensibile alla situazione difficile del fratello e della sorella. E’, come sottolinea così bene Olivier Clément, « …la fonte del desiderio irreprimibile di una umanità non umiliata…. ». L’incontro con Dio ci fa ritrovare l’uomo come fratello da amare e da salvare dalla miseria. Altrimenti, c’è il grande rischio della divisione, del terrorismo e della guerra.
Il massacro dei minatori di Marikana in Africa del Sud il mese scorso ha giustamente suscitato e risvegliato in tutti il passato doloroso dell’apartheid che ha conosciuto questo paese. C’è veramente bisogno di alzare gli occhi e di incontrare il mondo attorno a noi. E’ la nostra esperienza, è l’esperienza dei giovani delle nostre Comunità in Africa, nelle quali siamo diventati una nuova famiglia per i bambini di strada, i bambini sprovvisti di mezzi, gli anziani tacciati di stregoneria e respinti, i prigionieri e tutte le persone deboli e senza difesa. Tutte queste persone hanno ritrovato un nuovo senso per la loro vita. Si sentono amate, sono incontrate quotidianamente. E’ questo il cammino della pace, è il cammino di un mondo migliore con un volto più bello. E’ la scommessa di un mondo di speranza, un mondo di giovani che hanno dei sogni. La Casa della Comunità in Benin si chiama la Casa del sogno, come si è sentito nella presentazione del moderatore all’inizio. E’ una casa che accoglie un centinaio di bambini di strada da 7 a 18 anni che sono senza tetto e che lavorano per sopravvivere. Nella Casa del sogno, hanno ritrovato una nuova famiglia, una nuova casa in cui si lavano, lavano i loro vestiti, mangiano, giocano e si riposano. Questa nuova vita più sana, fa nascere nuovi sogni, la speranza rinasce, la vita riprende un nuovo senso, si stabiliscono nuovi progetti di vita. E sono già numerosi quelli di loro che hanno iniziato un tirocinio, o hanno ripreso il cammino della scuola. Abbiamo condiviso questa bella storia d’amore con il Papa Benedetto XVI quando ha visitato il Benin. E incoraggiandoci, diceva che effettivamente « c’è bisogno di sognare ». La luce di questo sogno che nasce e cresce, è il frutto del lavoro meraviglioso fatto dai giovani cristiani della Comunità che sono studenti, liceali, disoccupati e lavoratori che hanno ritrovato la gioia e la bellezza di essere cristiani. Tutti noi ci siamo accorti che grazie all’incontro con Dio sorge la speranza di una vita più umana e di un mondo più bello. Questo sogno lo condividiamo con tutti. Ecco la bella esperienza dell’incontro con Dio che facciamo attraverso gli uomini e con gli uomini.
Vi ringrazio per la vostra cortese attenzione.
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