La paura è nello sguardo di Ousmane, seduto su una branda al memoriale della Shoah, gli occhi sbarrati, assenti. Viene dalla Guinea, come diversi altri nel centro d'accoglienza di piazza Sraffa, sul lato destro della Stazione Centrale. Dice di avere 17 anni, ma secondo la prefettura potrebbe averne 20, quindi nessun diritto all'accoglienza nelle comunità per "minori stranieri non accompagnati", anche se i suoi amici raccontano che Ousmane sta «male nella testa» e che, se verrà espulso, potrebbe non reggere al nuovo trauma, dopo la morte dei parenti, la prigionia in Libia, la fuga verso l'Italia col gommone spiaggiato a Catania. Lo accudiscono i volontari della comunità di Sant'Egidio, che in questa notte di inizio settembre aprono le brandine e distribuiscono i pasti caldi per 50 richiedenti asilo.
Fra loro, una donna, diversi minorenni, anche Samrawit, una bambina di 12 anni, scappata dall'Eritrea col fratello maggiore di 17 anni, Kaleb. Sono in viaggio da tre anni e sognano la Svizzera, dove da quattro anni è rifugiata la mamma. I volontari li hanno trovati su un treno, ieri pomeriggio, e i due ragazzini hanno spiegato di essere stati un mese a Caltagirone e poi di essere scappati per venire a Milano, nella speranza di riuscire a passare il confine. Sono storie così quelle che hanno raccolto qui, ogni sera, gli 800 volontari di ogni fede e nazionalità, che si sono dati il cambio, da ormai quasi due mesi, nel dormitorio ricavato accanto al "binario 21", dove fra il '44 e il '45 vennero deportati verso i campi di sterminio nazisti migliaia di ebrei. Il presidente Roberto Jarach ha deciso tre anni fa di aprire ai profughi le porte di questo luogo, visitato l'anno scorso da 26mila studenti e 8mila cittadini. Ha transennato un lato del museo e riservato 300 metri quadri all'accoglienza dei migranti che vagano in stazione, un'emergenza iniziata nel 2013 e mai finita, nonostante il blocco degli sbarchi dalla Libia.
Quest'estate il Comune ha chiuso l'hub che era in via Sammartini e chi arriva in treno viene indirizzato al Memoriale, dove operano secondo il verbo laico della solidarietà molte comunità religiose - ebrei, cattolici, luterani, anglicani, islamici - ma non istituzioni pubbliche. Chi arriva qui, racconta la sua storia, spera di trovare un tetto. «A regola, la permanenza massima sarebbe di tre giorni, ma alcuni ragazzi sono qui da molto più tempo, alcuni addirittura da luglio, quando abbiamo aperto», racconta Stefano Pasta responsabile dell'accoglienza per Sant'Egidio, coordinatore di un team eterogeneo di volontari, che fanno capo a varie parrocchie come al movimento Genti di Pace, fino alle comunità straniere, sudamericani e islamici in testa. Quest'anno c'è anche un rom ad accogliere i rifugiati.
Ogni sera alle 20 si aprono le porte ed entrano i ragazzi. Ahmed, 23 anni, libico, parla con Said, uno dei mediatori culturali: «Fatemi restare qui ancora qualche giorno, non voglio finire in strada, non voglio tornare nel mio Paese, lì c'è solo guerra e morte». Tutti quelli che sono passati dalla Libia ripetono «tortura», hanno gli stessi sguardi spaventati se gli chiedi che cosa succede li, in quelle prigioni a cui approdano tutti quelli che si sono messi in viaggio sperando di fuggire a un destino di fame e di morte. Ormai, di siriani ce ne sono pochi, la maggioranza dei 2mila che sono stati ospitati al Memoriale, dal 14 luglio a ieri, arrivano da Eritrea, Somalia, Etiopia, e poi da Sudan, Camerun, Congo, Togo, Guinea, Senegal e altri stati del Centrafrica.
«La xenofobia è contagiosa, ma lo è anche la solidarietà» - dicono Stefano Pasta e Ulderico Maggi di Sant'Egidio, circondati da volontari sorridenti, giovani e adulti, uomini e donne, gente che cerca con pazienza di capire di che cosa abbia bisogno ogni ospite, quali documenti procurarsi per loro, dove cercare di farli arrivare. Il giorno dopo, ci sarà chi accompagnerà i richiedenti asilo in Questura a fare pratiche, a cercare di evitare l'espulsione, a spiegare che «dietro a ogni numero, a ogni richiesta d'asilo, c'è una storia di dolore e di speranza».
È anche questo un pezzo di città, anche se nessuno se ne accorge, nel buio della notte, dietro alla Centrale, senza clamori e riflettori. «Nell'Europa dei muri e deí respingimenti, qui c'è un mondo che vuole aiutare i migranti - spiega Pasta - E non è casuale che questa iniziativa sia in un luogo così significativo, sotto alla scritta "indifferenza" che c'è all'ingresso di questo memoriale». Qui al contrario, nessuno sforzo viene lasciato intentato. Lo sa Abdul, 26 anni, sudanese, che dopo un mese e mezzo al Binario 21, è stato accolto in casa di un pastore luterano di Venezia. Eppure, il Comune non spende un euro per questo progetto, anche se molti qui sono inviati dal Centro aiuto di via Ferrante Aporti. Jarach mette 25mila euro all'anno per coprire i costi e altri 20mila li spende Progetto Arca per i pasti caldi. Gianluca Oss Pinter e Rosamaria Vitale, volontari in servizio all'ex hub di via
Sammartini (oggi diventato centro d'accoglienza a numero chiuso), ogni sera arrivano qui, a visitare i profughi: »Ogni giorno c'è una nuova emergenza, un nuovo dramma da risolvere. Noi non ci tiriamo indietro, questa è casa nostra, il nostro mondo».
Zita Dazzi
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