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14 Maggio 2015

Verso la beatificazione del 23 maggio

Oscar Romero, un martire del Concilio

Con "Famiglia Cristiana" la biografia ufficiale scritta da Roberto Morozzo della Rocca, che svela il volto genuino del vescovo salvadoregno. Oltre le polemiche e le ideologie.

 
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Un pastore errante e coraggioso. Sembrano questi i tratti qualificanti della persona e del ministero di mons. Oscar Arnulfo Romero. L'arcivescovo di San Salvador (Centroamerica) venne ucciso il 24 marzo 1980 a 62 anni, mentre celebrava l'Eucaristia, dai cosiddetti squadroni della morte. Squadroni legati al potere politico della destra salvadoregna. Attorno alla sua figura sono sempre ruotate opinioni contrastanti, dimentiche della sua passione per il popolo di Dio. In occasione dell'uscita del tanto atteso volume Oscar Romero. La biografia (San Paolo), abbiamo incontrato l'autore, Roberto Morozzo della Rocca, docente di Storia contemporanea all'Università degli Studi Roma Tre e grande studioso della vita e dell'opera di Romero. L'esperto, chiamato a collaborare al processo di beatificazione del vescovo martire, ci ha offerto uno spaccato autentico del pastore, di colui che si è speso senza sosta per la sua gente.
Chi è Oscar Romero? Quali sono i tratti essenziali della sua figura?
«Oscar Romero era un pastore secondo la tradizione classica della Chiesa, pieno di compassione per il popolo affidatogli. Il suo senso di responsabilità era tale da essere disponibile a dare la vita per fedeltà alla sua missione. E in effetti andò incontro al martirio del tutto cosciente che presto sarebbe stato ucciso. Anche se avrebbe potuto farlo, non voleva abbandonare i suoi fedeli, i suoi poveri, allora preda di violenza e ingiustizia. Era un uomo umile, con un ideale di vita semplice. Ma anche un uomo fermo dinanzi al male e all'ingiustizia. Da grande predicatore divenne il riferimento del suo Paese nella scena pubblica. Lo si è presentato come un "politico", in maniera negativa da parte della destra per squalificarlo e giustificare il suo assassinio, e in maniera positiva da parte della sinistra per farne una bandiera rivoluzionaria. In realtà, Romero parlava alto e forte in difesa delle vittime della violenza in forza della sua responsabilità pastorale e non perché volesse occuparsi di politica, della quale ammetteva serenamente di non essere esperto».
Cosa dice questo pastore oggi?
«A vari decenni dalla morte, la figura di Romero sta nel pantheon ideale delle grandi figure cristiane del XX secolo, accanto a personaggi come Madre Teresa di Calcutta, Charles de Foucauld, Dietrich Bonhoeffer, Albert Schweitzer, Pavel Florenskij, Martin Luther King o Giovanni XXIII. Questo perché il vescovo ha vissuto alcune delle beatitudini evangeliche: l'amore per i poveri, l'anelito alla giustizia e alla pace, la persecuzione e il martirio. Per l'America latina, Romero incarna il Concilio Vaticano II nel suo amore per l'uomo contemporaneo. La sua morte si spiega anche perché lui è un precursore in un ambiente impreparato ad accoglierlo, con rapporti sociali quasi feudali, una cultura della sopraffazione, una Chiesa polarizzata tra clero reazionario e rivoluzionario. Romero è un simbolo del Vaticano II, adempiendo il richiamo di san Giovanni XXIII a essere Chiesa di tutti e particolarmente dei poveri. Viveva sobriamente nelle stanzette del custode di un ospedale per malati terminali, e li visitava regolarmente. Romero non è un modello di intellettuale, di teologo, o di politico, ma di pastore. Se le Nazioni Unite giustamente, e laicamente, lo celebrano ogni 24 marzo come campione di diritti umani, lo si deve alla sua compassione cristiana, per le vittime della violenza e dell'ingiustizia».
Colpisce l'episodio in cui Romero "vive" l'uccisione del gesuita padre Rutilio Grande. Che cosa significò per la sua vita e il suo ministero?
«Rutilio Grande era un gesuita salvadoregno, diverso dalla maggioranza dei suoi compagni che venivano dalla Spagna ed erano prevalentemente degli intellettuali. Aveva un amore appassionato, esclusivo, travolgente per quelle che chiamava le maggioranze  povere del suo Paese. Andò a vivere in campagna tra i contadini, si immerse nella loro vita, nella loro religiosità, nei loro problemi. Fu ucciso perché la sua predicazione evangelica scuoteva i contadini dal torpore sociale e indirettamente suscitava rivendicazioni sindacali. Romero era amico di Grande e conosceva il suo amore per il popolo dei poveri. Dinanzi alla sua morte si commosse e pensò che doveva in qualche modo assumere pastoralmente la stessa paternità dei campesinos che esercitava Rutilio. Poiché era arcivescovo della capitale San Salvador, di fatto primate della Chiesa salvadoregna, questa assunzione di responsabilità significò per Romero impegnarsi in un ruolo pubblico di difesa dei poveri, con quella virtù della fortaleza (fortezza) che sentì venirgli da Dio in quelle circostanze».
LE TAPPE DEL PROCESSO
L'ARCIVESCOVO CHE FU UCCISO IN ODIO ALLA FEDE

È un popolo in festa quello che aspetta, il prossimo 23 maggio, la beatificazione di monsignor Oscar Arnulfo Romero. Alla presenza del cardinale Angelo Amato e del postulatore monsignor Vincenzo Paglia, l'arcivescovo salvadoregno ucciso il 24 marzo 1980 sarà così elevato agli onori degli altari, 35 anni dopo il suo martirio.
Per il vescovo ucciso in odium fidei, come hanno dichiarato i teologi della Congregazione delle cause dei santi, ci sono voluti molti anni e un Papa latinoamericano per sbloccare definitivamente la causa di beatificazione.
Avviata a Roma nel 1997, dopo la chiusura della fase diocesana, la causa si era rapidamente arenata. Fu poi Benedetto XVI, nel 2007, a tornare sulla questione dichiarando che Oscar Arnulfo Romero era degno degli altari. E lo stesso monsignor Paglia ha sostenuto che papa Ratzinger, nel dicembre 2012, poco prima di annunciare le sue dimissioni lo aveva rassicurato sullo «sblocco» della causa.
Nell'aprile del 2013 la Congregazione per la dottrina della fede aveva poi confermato che erano state superate le riserve di carattere «dottrinale e prudenziale» e che la causa poteva andare avanti. Sul processo è tornato poi papa Francesco che, di ritorno dal viaggio in Corea, lo scorso agosto, aveva dichiarato: «Adesso i postulatori devono muoversi perché non ci sono più impedimenti».
L'8 gennaio di quest'anno, con il riconoscimento del martirio formale in odium fidei era stato poi fatto il passo decisivo che ha consentito alla Congregazione di trarre le conclusioni finali e di presentare al Papa il decreto di beatificazione che Bergoglio ha subito firmato.


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