Due sconvolgenti testimonianze sulla persecuzione contro i cristiani nell’Albania comunista raccontata direttamente da due sopravvissuti. I protagonisti, padre Anton Luli e Gjovalin Zezaj, hanno trascorso gran parte della loro vita nel «paradiso» socialista dell’Albania di Enver Hoxha. Personaggi assai diversi –il primo prete gesuita, il secondo giovanissimo attivista politico anticomunista- sono uniti da un’esperienza comune: il rifiuto di abiurare la loro fede nell’unico Stato europeo in cui fosse proibita per legge ogni forma di credo religioso. Le loro storie sono un viaggio nell’universo concentrazionario del piccolo paese balcanico dove erano incarcerati decine di migliaia di prigionieri politici. La fede religiosa, nell’Albania del dopoguerra, era considerata uno dei nemici principali della costruzione dello Stato nazional-comunista. Per questo chi la professava, fino al 1967, fu considerato un rivale politico, dunque da eliminare. Dal 1967 in poi, la dittatura comunista fece il passo che nessun altro regime della stessa ideologia aveva osato compiere: abolì, per legge, tutte le religioni. Da quel momento, qualsiasi richiamo a un credo religioso, anche il più semplice come il segno della croce, era considerato un reato punibile con il carcere.
Anton Luli, dal 1946, combatté tutta la vita per cercare di fare il prete. Gjovalin Zezaj fu portato in carcere, e torturato, a soli diciassette anni per aver distribuito volantini anticomunisti nell’imminenza delle elezioni del 2 dicembre 1945, celebrate senza voto segreto. Tutta la loro esistenza è stata segnata dalla sofferenza inferta da uno Stato che considerava nemici queste due persone molto miti. In realtà sono stati due cristiani, come anche altri, che hanno voluto caparbiamente vivere la loro fede in piena libertà.