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15 Janeiro 2016

Andrea Riccardi / Religioni e civiltà

Francesco rilancia il dialogo con gli ebrei

Avviato vent'anni fa da Wojtyla, ha vissuto con Ratzinger momenti di apertura e di tensione: ora il Papa suggella un rapporto di forte spessore

 
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Tra pochi giorni papa Francesco varcherà la porta del Tempio Maggiore degli ebrei di Roma. Pochi mesi fa, davanti a quella porta, era stato posto il feretro del quasi centenario ex rabbino capo Elio Toaff. Era stato lui, nel 1986, ad accogliere il primo Papa in una sinagoga, Giovanni Paolo II. Quella visita travalicò il quadro romano per segnare una tappa nei rapporti tra ebraismo e cattolicesimo.
In quell'occasione papa Wojtyla aveva definito gli ebrei «fratelli maggiori» per i cristiani, affermando come l'ebraismo avesse con il cristianesimo un legame «intrinseco». Fu una svolta nei millenari e tesi rapporti tra cristiani ed ebrei: non solo per le parole del Papa, ma per l'evento gioioso e liberatorio della sua visita. Il Papa di Roma riconosceva l'ebraismo e professava più che rispetto per questa religione.
Nonostante i cambiamenti del Vaticano II, a Roma non c'erano stati "grandi gesti". Permaneva una tensione riguardo alla razzia degli ebrei da parte dei nazisti, avvenuta il 16 ottobre 1943, e ai "silenzi" di Pio XII in quell'occasione. Paolo VI non aveva compiuto gesti significativi verso gli ebrei.
Fu Toaff a sbloccare la situazione. S'incontrò con quello che definirei il filosemitismo di Giovanni Paolo II, vicino in modo particolare all'ebraismo, che considerava la Shoah un grande male da non dimenticare. Il ricordo di Toaff, fatto da Wojtyla nel suo testamento, assume - a mio avviso - un valore simbolico: il lascito di un rapporto speciale tra il Papa di Roma e gli ebrei della città, ai successori e alle generazioni cristiane del futuro. Benedetto XVI ha compiuto la seconda visita di un Papa alla sinagoga romana, accolto dal rabbino capo Riccardo Di Segni con un discorso di denso significato teologico.
Non era la rottura di un ghiaccio secolare, un atto importante di un papa tedesco.
Tra l'altro i rapporti tra Ratzinger e gli ebrei avevano avuto, nel 2009, una fase difficile perché la Santa Sede aveva tolto la scomunica a quattro vescovi lefebvriani e si era scoperto che uno di essi, Williamson, aveva posizioni revisioniste sulla Shoah. Benedetto XVI aveva chiarito la vicenda con molto impegno e, pochi mesi dopo, nel 2010, si era recato in visita al Tempio maggiore. Le difficoltà intercorse e l'origine tedesca del Papa rendevano complesso questo passaggio.
Ma papa Ratzinger seppe sbloccare la situazione con un discorso di alto profilo teologico e con alcuni gesti significativi. Per la prima volta, un Papa s'inchinava davanti alla lapide che commemorava la razzia degli ebrei romani da parte dei tedeschi, deponendo una corona di fiori. Riconosceva il grande dolore degli ebrei romani, di fronte a cui papa Pacelli era rimasto drammaticamente silenzioso. Benedetto XVI aveva poi reso omaggio a Stefano Taché, ucciso a soli due anni nell'attentato palestinese del 1982 davanti al Tempio, in un momento di grave isolamento della comunità.
Francesco, da parte sua, conosce la storia degli ebrei. Il 16 ottobre 2013, a settant'anni della razzia, ricevette Enzo Camerino, ebreo deportato da Roma ad Auschwitz. Presente all'incontro, sentii dal Papa parole di forte partecipazione al dramma dell'ex deportato, ora scomparso. Tra pochi giorni, si svolgerà nel Tempio non solo un incontro tra il Papa e l'ebraismo, ma tra il vescovo di Roma e una comunità concreta dalla storia complessa, che ha alle spalle la storia del ghetto pontificio, ma che ha sempre vissuto - minoritaria - nella Roma dei Papi, anche in tempi duri. A Roma, ebrei, cristiani e Papa sono destinati a vivere insieme.  


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