Franciscan friar, Turkey
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Dopo 47 anni di ministero francescano attraverso il mondo ai margini delle altre comunità credenti è giunto il momento, nel prossimo novembre, di lasciare la Turchia e di ritirarmi nel mio paese. Ma sento chiedermi da quanti desiderano una rispettosa convivialità: «Ci dica, lei crede veramente alla possibilità di una fratellanza?»
Senza esitazioni e malgrado la situazione attuale rispondo: «Sì! Certo, credo alla fratellanza universale e interreligiosa. Ci credo per volere di Dio, ci credo perché l'uomo ne è capace, ci credo perché ho visto tante persone vivere quotidianamente insieme ad amici di altre religioni; ci credo per i miei incontri e per la mia vita in Africa, Asia, Europa.»
L'Europa ha sempre guardato l'Islam attraverso le sue tumultuose relazioni con gli Arabi e molto spesso ha perseguitato gli Ebrei. Tutto ciò ha portato ad una visione errata della teologia, della storia e della geografia interreligiosa. Ma la Chiesa, le Chiese hanno raggiunto quanti all'ascolto della Parola e dello Spirito sono giunti ad uno sguardo più evangelico.
Abbiamo già fatto un cammino enorme con i nostri fratelli ebrei e credo che potremo seguire la stessa strada con i nostri fratelli musulmani. Non potendo in pochi minuti parlare di esperienze tanto lontane, mi accontenterò di raccontare della mio ultimo inserimento. Arrivato nel 2003 a 68 anni a Istanbul mi sono imbattuto nelle lingue che mi hanno portato a privilegiare l'incontro spirituale rispetto a quello nella condivisione quotidiana della vita di lavoro e di vicinato. Vorrei parlarvi delle mie relazioni fraterne con un gruppo di dervisci rotanti. Dio ci ha dato questi uomini come fratelli e personalmente lo prendo come un dono supremo del nostro Dio sul mio percorso di pellegrino.
Dodici anni fa mi recavo in un convento di dervisci trasformato in museo dove la danza di questi discepoli di Rumi era ammessa, ma a solo titolo di cultura; mi domanadavo se i danzatori e i musicisti si sentissero soltanto degli artisti o prima di tutto degli uomini di fede. Non immaginavo minimamente di fare con loro un'esperienza spirituale profonda.
Poco tempo dopo, un amico cristiano che ogni anno offre una cena nel cortile della moschea durante il ramadan a migliaia di poveri che vengono a cercare da mangiare per la rottura del digiuno, mi invitò proprio quella sera dall'Imam. Lì incontrai il capo di un gruppo di dervisci rotanti. Fu l'inizio di una profonda amicizia spirituale. Invitato nella nostra fraternità, mi accolse poi da lui e mi chiese di venire alla messa. Ho iniziato ad andare solo o con lui alla moschea per meditare ed unirmi discretamente e senza gesti alla loro preghiera.
Un anno dopo, proposi di fare una cerimonia congiunta tra il suo gruppo e i Francescani per l'anniversario del grande incontro interreligioso di Assisi del 27 ottobre 1986.
Su questo cammino spirituale scopriamo per ciascuno l'importanza del fondatore. L'anno scorso gli ho proposto di andare noi due a Konia e di pregare in silenzio, fianco a fianco, davanti al mausoleo di Rumi. All'uscita, come in uno stesso impeto, ha voluto accompagnarmi alla piccola chiesa dove andavo a celebrare la messa. Ho pensato ad un approccio sicuramente simile a quello di Assisi e Dio ha concesso che l'idea si facesse strada ... così come i necessari finanziamenti. Lo scorso aprile, se non fosse stato possibile viaggiare sullo stesso aereo, il nostro viaggio fraterno sarebbe iniziato con un appuntamento molto simbolico ai vespri della Chiesa di Sant'Egidio a Roma. La condivisione della preghiera e del pasto con la Comunità sono stati il preludio di questa santa settimana.
L'indomani siamo stati ricevuti dal Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, dove i dervisci stessi hanno risposto alle domande circa l'origine e lo stato dei nostri legami. La sera, all'Università francescana, i nostri giovani fratelli di tutti i continenti hanno potuto vivere la nostra cerimonia comune. Un gesto, una preghiera, che valevano tutti i discorsi sul dialogo. Ad Assisi è stato più intimo, ma quale gioia di essere insieme, discepoli di Rûmi e figli di Francesco, soprattutto perché ogni giorno di più ci sentivamo uniti al di là delle differenze per vivere una forma di unità che porta a cantare insieme al Creatore. Hanno molto ammirato l’Eremo delle Carceri dove i primi discepoli si radunarono nel bosco con Francesco.
Il culmine della settimana sono stati senza dubbio, per i due gruppi che comunicavano con il silenzio, i trenta minuti davanti alla tomba del Poverello. Poi alla sera dell’ultimo giorno la celebrazione davanti ai francescani e francescane di ogni obbedienza a due passi del luogo dove morì il nostro Padre e fratello. Sono momenti che non potremo dimenticare.
Chiamato alla casa degli anziani, il Consiglio provinciale desidera che io testimoni la mia esperienza, fin tanto che potrò. Sento molto forte la chiamata ad essere testimone della speranza. Quanto è triste sentire il grido di coloro che utilizzano la sofferenza dei cristiani perseguitati per darsi delle ragioni per odiare di più, rifiutandosi di lavorare per la ricerca della fraternità voluta dal nostro Cristo. Qualunque sia l'analisi della situazione, apparentemente lucida e delle più pessimiste, l'odio non è una risposta evangelica: le Beatitudini, le parole sul perdono, l'esempio di Gesù e di Stefano il protomartire non sono da gettare nella pattumiera della storia, si tratta della nostra fede.
Mi sembra che alcuni orientamenti di San Paolo emergano dalle letture della settimana scorsa: «Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l'inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l'inimicizia (Ef 2,14-16)».
Con la forza del suo Spirito, abbiamo tutti i motivi per essere dei soggetti attivi di fraternità e dei testimoni della speranza.
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