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Basilica di S. Bartolomeo all’Isola Tiberina 1 luglio 2009
Resistere al male e alla violenza Intervento di Andrea Riccardi (trascrizione)
Vorrei innanzi tutto ringraziare voi tutti che siete qui, e ringraziare lei, Vecchi, per aver coordinato questo dibattito.
Mi ha fatto particolarmente piacere che questo libro sia stato discusso dalle persone, che sono intervenute. Sono particolarmente contento dell’intervento del cardinale Sepe, non solo per una storia molto lunga (e non insisto sulla lunghezza) di amicizia, ma anche perché lui è all'origine di questo libro, proprio nell’avvicinarsi del Giubileo. Con riferimento al lavoro che si stava facendo di raccolta di storie di nuovi martiri, mi disse: “Pensa a farne un libro!”. Lo disse più di un anno prima del Giubileo, quando era un’impresa un po’ arrischiata; e venne l’idea di questo libro, con l'intuizione che tutto questo non poteva essere seppellito negli archivi.
Poi sono molto grato ad Adriano Roccucci, che è molto competente del mondo russo, ma ne parla con passione e lo fa rivivere davanti ai nostri occhi; e poi a Roberto Saviano perché mi sembra che la sua presenza qui – ed è anche la prima volta che viene a un incontro con alcuni amici di Sant'Egidio – significhi che questo discorso sulla testimonianza non è qualcosa di antico, di remoto, ma è una sfida attuale: è qualcuno che parla e paga di persona.
Sia Roberto Saviano, che il cardinale Sepe, con itinerari molto differenti e in modo molto diverso, si sono posti il problema che non si può restare indifferenti, non si può restare né caldi né freddi davanti al male.
Penso a quello che il cardinale ha fatto e sta facendo a Napoli. Io una volta gli dissi scherzando: “Stai diventando il “Romero” di Napoli!”. E lui mi rispose: “Speriamo però di non finire nello stesso modo!”. Può sembrare una battuta, ma mi introduce ad un discorso che Roberto Saviano faceva.
I testimoni non sono degli eroi. La basilica di S. Bartolomeo, dove ci troviamo, parla di martirio; l’ornamento delle palme parla di martirio. E’ una chiesa che custodisce la memoria dell’apostolo Bartolomeo e fu costruita da Ottone III per sant’Adalberto, figure di martiri della storia del cristianesimo. Quasi eroi lontani: un mondo di uomini e donne sicuri di sè, che sono andati alla morte, o così tante volte ci sono state trasmesse le loro immagini.
Personaggi diversi da noi, dal nostro tempo, differenti da noi così incerti, fragili, agitati della nostra vita. Ma la storia mostra che non è così. Qui c'è un'intuizione: il martire non è un uomo che sceglie di morire, il martire non è un uomo sicuro, il martire o il testimone non è un uomo senza paura.
E questo lo mostra il libro, ma anche questa stessa chiesa di San Bartolomeo che nel 2000 abbiamo voluto trasformare nel luogo memoriale dei nuovi martiri. E voi vedete in queste cappelle ci sono i ricordi di diversi contesti, diverse figure, come il messale di mons. Romero. Un ambiente che ricorda la grande intuizione di Giovanni Paolo II che il martirio non è qualcosa che appartiene a eroi remoti, ma qualcosa di attuale
Vorrei poi ricordare, visto che siamo qui, -per provare a cogliere un po' il genius loci-, che in questo luogo durante l'occupazione tedesca a Roma, nel 1943-’44, c'era un convento di francescani in cui sono stati nascosti 400 ebrei, che poi venivano smistati in altri luoghi di rifugio. Ma proprio sul ponte dell’Isola Tiberina si metteva una donna, Celeste Di Porto, un'ebrea che faceva come professione la delatrice, cioè vendeva i suoi correligionari ai fascisti e prendeva soldi da quelli a cui consegnava un ebreo; credo fossero 5.000 lire per un uomo e 3.000 per una donna. Allora questo luogo è evocativo di chi salvava e di chi denunciava. Questi riferimenti, solo per dire perché abbiamo voluto presentare questo libro qui.
La grande intuizione di Giovanni Paolo II è che il Novecento è stato un secolo di martiri. Questa non era teoria, era la sua vita. Infatti, il 20% della popolazione polacca è morta durante l'occupazione nazista, oltre alle vittime della Shoah; poi la dura vicenda del comunismo. In questo contesto: come lottare contro il male? come sopravvivere nell'inferno dell'occupazione? come sopravvivere nel lager? come sopravvivere quando viene uccisa tutta la classe intellettuale? come sopravvivere negli spazi limitati della dittatura comunista? Sebbene la dittatura in Polonia fosse molto differente da quella russa, era pur sempre una dittatura.
Allora la risposta dei testimoni è la risposta di una lotta a mani nude.
In questo libro parlo di testimoni cristiani, non solo di cattolici, ma testimoni cristiani. Cattolici, ortodossi, evangelici. Ma quando il testimone è tale fino al sangue c'è un apparentamento con tutti gli altri, anche oltre i confini del cristianesimo stesso. Giovanni Paolo II, una volta intervistato nel suo primo libro intervista con André Frossard, parla del martirio e lo scrittore francese gli chiede: “Ma 6 milioni di ebrei morti nei lager possiamo dire che siano martiri?”. Lui risponde: “Perché dobbiamo negare che siano martiri?”.
C’è una grande differenza nella concezione del martire: in senso umanistico, il cristiano è colui che vuole vivere e che lotta per la vita. Noi oggi, invece, nella nostra pubblicistica abbiamo l'idea che il martire sia il kamikaze islamico: lo shahid, quello che si toglie la vita per togliere la vita gli altri, che cerca la morte e attraverso la sua morte porta gli altri alla morte. Ma questo -lo conosciamo- non è solo il martire musulmano, è il culto della morte. Era il culto della morte dei membri delle SS, dei nazisti, del campo di sterminio, di tanti aspetti del fascismo: pensate al colore nero, al simbolo del teschio. Ma è anche la simbologia delle mafie, sono i riti di iniziazione delle mafie, stretti con il sangue e la morte. Il culto della morte è tipico di una logica di disprezzo della vita.
No, il martire cristiano è qualcuno che non vuole morire. Diceva il cardinale Sepe, molto giustamente, che il martire cristiano è anche la suora che resta in Congo per curare i malati di Ebola, e dice: “Ma io a chi lascio i miei malati?” Non è un ragionamento eroico, ma è un modo per dire: io resto.
E’ questa la grande idea di Giovanni Paolo II: il martire della fede è anche un piccolo uomo, una piccola donna che non scappa davanti alle sue responsabilità, per amore, per umanità, per giustizia, per fede, perché non vuole lasciare le persone che gli sono affidate.
C'è una storia molto bella di una donna abruzzese che durante la seconda guerra mondiale nasconde a casa sua due aviatori britannici che erano stati paracadutati lì vicino ed erano ricercati e condannati a morte. “Perché li hai nascosti?”-gli chiedono i nazisti prima di fucilarla. Risponde: “Non li ho aiutati perchè erano inglesi, ma perché sono cristiana e anche loro sono cristiani”. Analogamente il pastore abruzzese Michele Del Greco, prima della fucilazione per motivi simili, disse: “Muoio per aver messo in pratica quello che mi è stato insegnato in chiesa quando ero bambino: dar da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati..”. Risposte, se volete, semplicissime, ma testimonianze di umanità profonda.
Il martire è qualcuno che non è disposto a rinunciare alla sua opera, diciamo alla sua umanità, per salvare ad ogni costo la sua vita. Qui per me c'è una radice profonda di umanesimo che porta a resistere al male. E si potrebbe scrivere, a partire dai testimoni, un testo sull’umanesimo del Novecento e sulla forza dell’umanesimo del Novecento.
Mi permetto di citare due esempi. Il primo è mons. Romero. Mons. Oscar Arnulfo Romero è una figura che è diventata anche simbolica e per tanti aspetti è un punto di scontro tra visioni opposte. Ma Romero è un uomo che non ha abbandonato la sua gente, malgrado le minacce di morte. Mi raccontava il card. Neves che, durante l’ultima visita a Roma, Romero gli telefonò e gli disse: “Io torno a San Salvador, ma lì mi ammazzano!”. Ecco il testimone: è uno che è tornato, è uno che non se n'è andato.
Il secondo esempio è quello di frère Christian de Chergé - e qui, a San Bartolomeo, è conservata una lettera che ci scrisse. Trappista nell’Algeria degli anni Novanta, ostaggio della violenza, anche lui resta. E i suoi scritti ci dicono la paura che di notte arrivassero gli uomini della guerriglia, l'ascolto dei passi. Viene portato via, viene rapito, assieme ad altri monaci: per 50 giorni è prigioniero. Ed è interessantissima la documentazione della prigionia che è stata ritrovata, perché si vede come Christian de Chergé lottasse con i suoi carcerieri affinché lui e i suoi fratelli continuassero a vivere; discute e spiega loro edice: “Guardate che se mi ammazzate è un errore per voi”.
Il martire è uno che vuole salvare la sua vita, ma non s'inginocchia; direi, discute in modo ragionevole, da pari a pari.
Allora perché noi di Sant’Egidio abbiamo sentito, ne discutevamo prima, il fascino per questa memoria? Non perché siamo degli eroi; siamo gente normale, siamo gente anche paurosa; ma perché mi sembra, ci sembra, che in questo tempo senza visioni o con poche visioni o poche idee, in questo tempo che è abitato da un revisionismo istintivo che tutto rimpicciolisce, ricordare queste figure è una grande forza.
La memoria è una grande forza; è una forza molto particolare, è, a me piace dire, una forza debole, ma una forza. Allora io penso che ricordare queste figure, studiarle, approfondirle – perché alcune sono gente semplice, ma altre sono figure che hanno un pensiero, un'analisi, dubbi, risposte – sia un modo per provare a ricostruire un nuovo umanesimo nel nuovo secolo.
Ho fatto riferimento a un tempo che ha un revisionismo istintivo. Sono d'accordo con Saviano: il martire, il grande martire dei primi secoli del cristianesimo, così come è stato raffigurato, spesso è una grande figura, quasi un eroe che lotta con gente che lo uccide, con figure del male che sono tante volte rappresentate anche in modo demoniaco. Ma il martire contemporaneo è il martire del nostro mondo, è martire anche della diffamazione. Oggi lo vediamo: vediamo che le persone condannate a morte da Hitler, anche gente di chiesa, erano accusati di reati immorali o di traffico di valuta.
Il martire, oggi, spesso non è una figura titanica, che viene uccisa, la cui morte è quasi una condanna per i suoi assassini. C'è il martirio della diffamazione, il martirio della reputazione, la distruzione morale e la distruzione umana, perché in fondo tutte quelle figure che inquietano, in un certo modo, vanno distrutte: questo è il revisionismo istintivo del nostro mondo che tutto vuole rimpicciolire.
Io credo invece che richiamare queste figure vuol dire provare a pensare un nuovo umanesimo: per noi, che non siamo eroi, questo umanesimo parte da un rapporto preferenziale, amico, con i poveri, con quelli che subiscono, si potrebbe dire, il martirio e l'oppressione della vita.
Ma questo umanesimo non è teorico, è un umanesimo vissuto. E mi ha sempre colpito quello che dice Martin Buber: “Il punto di Archimede a partire dal quale io posso sollevare il mondo è la trasformazione di me stesso”. Mi colpisce in un tempo di rivoluzioni fallite, in un tempo di visioni appassite. E ringrazio Saviano per aver citato Hillel: “Quando mancano gli uomini, sforzati tu di essere uomo”. Non è un'alleanza di persone che si coagulano per far diventare il mondo migliore, ma sono tanti uomini che si muovono in una certa direzione, secondo la loro sensibilità, secondo la loro situazione, e scoprono tante volte una sintonia: sono soli, ma spesso questa sintonia diventa una forza.
E qui mi piace ricordare, come scrivo nelle pagine del libro, un nostro amico, uno di Sant'Egidio che viveva in Kivu, in Congo: un paese che ha vissuto dal 1998 al 2002 una guerra terribile che ha causato 5 milioni di morti, una guerra che ha insanguinato in profondità la vita del paese, lasciando un'eredità terribile. Floribert, un ragazzo della Comunità, semplice, faceva la scuola ai bambini, molto affezionato. Era felice di essere stato assunto a 28 anni come direttore della dogana. Era contento di aver trovato lavoro, cosa non facile, e si doveva sposare. Gli viene proposto di far entrare nel paese dal Ruanda, un carico di riso avariato, come avevano sempre accettato di fare tutti i suoi predecessori. Lui, con una naturalezza istintiva, disse di no. Una serie di pressioni, offerte finanziarie importanti: questo ragazzo, con una ingenuità, diciamo, incredibile, resiste finché lo rapiscono e lo uccidono.
E’ una vicenda questa che mostra persone che nella loro piccolezza, in un angolo di mondo, giovani, esprimono una forza morale incredibile, e ci si interroga da dove venga.
I nuovi martiri del 2000 dicono che questo è un tempo ancora di martirio, di lotta, anche se, insisto, in presenza di un revisionismo che distrugge molto. C'è una distruzione culturale, morale e spirituale del nostro tempo per cui il messaggio che si trasmette è che tutto si vende e tutto si compra, che non vale rischiare, perchè ciò che vale si vende o si compra e il resto non vale niente.
In questo nostro tempo, per resistere al male e per resistere alla violenza, possiamo trovare in noi stessi, nella fede, nell'amore, poveracci come siamo, uomini comuni come siamo, le energie per resistere.
I martiri sono gente comune. Ho citato Floribert. Ho in mente un giovane seminarista iracheno che veniva, con alcuni di Sant’Egidio, a distribuire il mangiare la sera alla stazione Termini a quelli che vivono lì. A un certo punto ritorna nel suo paese e spiega: “Io devo tornare tra la mia gente”. E trova la morte in Iraq. E’ gente comune, è gente che era in mezzo a noi.
Il nostro tempo è tempo di revisionismo, ma anche tempo di violenza. E studiando il passaggio dal XX al XXI secolo, vediamo com'è cambiato anche il martirio. Ha ragione Roccucci: nel Novecento ci troviamo nel quadro di un confronto con forze del male titaniche, con i totalitarismi. Nel XXI secolo, progressivamente, si afferma un'altra forza del male: non ci sono più nemmeno le guerriglie ideologiche, ma c'è una specie di guerra civile diffusa. Non ci sono più le guerriglie che uccidevano Cipriano Paritein Africa, ma c'è una guerra civile diffusa che è senza volto: le mafie, le maras in Salvador, la camorra a Napoli, nel Mezzogiorno, e in tante altre aree del mondo. Una connessione tra violenza e denaro che fa paura, che distrugge alcuni paesi africani: è il caso, ad esempio, della Guinea Bissau, paese nelle mani dei narcotrafficanti.
Potremmo tracciare uno scenario apocalittico; però credo che il confronto con i martiri e le parole di oggi ci mostrano che c'è una grande speranza, che abbiamo grandi risorse e che non possiamo cedere al pessimismo.
La storia è un mistero di iniquità, ma è anche un mistero di salvezza e questa è anche la nostra fede. La storia è piena di sorprese. Conosciamo tutti la frase della Mishnà: “Chi salva un uomo, salva il mondo intero”. E’ poco noto come quest'espressione si ritrova nel Corano, nella Sura della Mensa che dice: “Chiunque ucciderà una persona è come se avesse ucciso l'umanità intera e chi avrà vivificato una persona è come se avesse salvato l'umanità intera”. E questa sapienza - salvare un uomo è salvare il mondo - attraversa l'ebraismo, l'Islam, il cristianesimo stesso.
Credo che questa sapienza umana, evangelica e religiosa, se vissuta dai singoli, se presa sul serio, sia una grande forza. E anche davanti a scenari che possono apparire apocalittici di male, di violenza, c'è la capacità di resistere e di sperare nel futuro.
Chi salva un uomo, salva il mondo intero; chi salva un uomo nel lager, salva il mondo intero. Ma credo anche che chi salva un uomo salva la speranza e la possibilità di essere migliore del mondo intero. Anche se quello che fa non si sa immediatamente, avviene qualcosa di profondo: è un evento singolo ma che ha quasi una forza cosmica.
E allora -e concludo con le parole del card. Sepe- il martire è Gesù stesso, un uomo che muore e salva il mondo intero. Questo non è un fatto isolato, ma diventa un modello per l'umanità.
Ringrazio molto Roberto Saviano, il card. Sepe, Gian Guido Vecchi, Adriano Roccucci e voi tutti di essere qui. Questo dibattito mi ha arricchito, e credo mi ha convinto sempre più che la battaglia per la memoria di queste figure sia qualcosa di importante. Grazie
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Testi: Intervento di Adriano Roccucci
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