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Basilica di S. Bartolomeo all’Isola Tiberina 1 luglio 2009 Resistere al male e alla violenza Intervento di Roberto Saviano (trascrizione) Per me è un fatto particolarmente importante e singolare allo stesso tempo partecipare a questo dibattito, perché io ho letto il libro di Riccardi come un libro di storia, di storia dell'esistenza. Mi sembra che l’approccio a questo libro scritto da uno storico sia di tipo narrativo.
E’ pieno di storie, a volte addirittura carico di storie, ci sono in alcune pagine tre, quattro, cinque storie; alcune accennate, altre maggiormente sviluppate: sono tutte storie di vita e di scelte e tutte storie di responsabilità.
A volte sembrano storie incredibili, nel senso che spesso è molto facile identificarsi in queste storie e pensare: e io? Come avrei agito? Come potevo agire? Spesso ti viene da dire: no, non è possibile che sia andata proprio così!
Esci da questo libro, almeno per come l’ho letto io, certo che in qualche modo coloro che hanno fatto questa scelta, l'hanno fatta in nome di una coerenza che avevano costruito nel profondo. Ma non è soltanto un percorso cristiano. Mi spiego meglio. Tutte queste storie, la parte maggiore di queste storie, quelle maggiormente sviluppate, ti lasciano un messaggio chiaro: in quel momento non si è salvato un messaggio, una coscienza, una fede, un credo, si è salvata, e non suoni retorico, l'umanità tutta.
C'è una frase che mi ha colpito, che Andrea Riccardi usa nella prefazione: “Laddove non c'è un uomo, sforzati tu di essere uomo.”
Questo saggio, che io ho letto come un lunghissimo racconto, è un continuo setacciare situazioni incredibili, a volte apocalittiche, laddove l'uomo ha cercato di salvare se stesso essendo uomo e, salvando se stesso o meglio l'umanità che conservava in se stesso, ha salvato l'umanità tutta.
C'è una storia per esempio del 1984 che mi ha colpito. Mozambico: due fazioni, Frelimo e Renamo, due gruppi guerriglieri che si scontrano, guerriglia, massacri. Capita che in un paesino un mozambicano convertito al cristianesimo si fa battezzare con il nome di Cipriano, che fra l'altro è un santo anche delle mia terre. Vive una situazione che tutto sommato in guerra è molto ordinaria: arrivano dei guerriglieri in questo paese e chiedono che sia consegnato il segretario del partito avverso. L'anziano del paese sa che quel segretario è suo nipote e allora lo vuole salvare. Quindi fa il nome di Cipriano: “E’ Cipriano – dice - il segretario della Frelimo”; loro vanno e se lo prendono, lui nega perché tutto sommato non solo non vuole morire, ma non c'entra con questa storia.
Qui già c’è un elemento: sembra una vocazione alla morte, in realtà la parte maggiore di queste storie sono una vocazione alla vita; non è che chi muore, chi viene identificato con l'espressione di martire, non vedeva l'ora del sacrificio: sarebbe una aberrazione persino per ciò che credeva, per ciò che ha creduto tutta la vita. La questione è che c'è un momento in cui bisogna scegliere. Infatti, Cipriano capisce che in quel momento negare ancora significa umiliare se stesso e tutto ciò per cui ha vissuto e per questo muore. Viene fucilato dai guerriglieri della Renamo e la sua fucilazione salva il nipote dell'anziano del villaggio.
Centinaia di storie di questo genere vengono raccontate nel libro. E questa storia conferma un po' quella che era la mia ipotesi: cioè Cipriano in quel momento muore non soltanto per la comunità cristiana del suo villaggio, salva un musulmano; salvando la dignità, cercando in qualche modo di non umiliarsi, non si inginocchia e piange per salvarsi la vita, capisce che ormai il destino sta andando in quel senso; la sua verità è la verità che il sacrificio sta salvando una vita.
Per quanto mi riguarda la lettura di questo libro è la conoscenza della vicenda di molti che avevano una profondissima vocazione per la vita e non avevano alcuna intenzione di morire.
C'è tutto un capitolo che riguarda molti cristiani che o vengono arrestati o decidono di partecipare alla sofferenza dei deportati nei campi di concentramento nazisti. Ricordo che enormi rastrellamenti furono fatti anche tra i Testimoni di Geova dal Terzo Reich perché rifiutavano di portare le armi: la distanza da tutto ciò che potesse essere arma in grado di ferire impediva agli adolescenti Testimoni di Geova di arruolarsi e per la diserzione c'era la morte nel Reich hitleriano.
Moltissimi furono i cristiani a morire nei campi di concentramento. La riflessione è sempre la stessa; la riflessione è: nei campi di concentramento cercano in qualche modo di preservare la vita, cercano di far galleggiare la vita, cercano di difendere la vita.
C’è un passaggio, a pagina 125, che mi ha molto colpito. Parla un rabbino deportato che, come succedeva spessissimo nei campi di concentramento, cerca di farsi forza ricordandosi a memoria alcune pagine dei testi sacri, in questo caso del Talmud. A un certo punto dice: “E’ finita! Dio non è più con noi!” Dice: “Lo so, non si ha il diritto di dire certe cose; lo so bene, l'uomo è troppo piccolo, troppo miserabile, infimo per cercare di comprendere le misteriose vie di Dio. Ma cosa posso fare? cosa posso fare io? io non sono un saggio, non sono un giusto, non sono un santo, sono una semplice creatura di carne e ossa e soffro l'inferno nella mia anima e nella mia carne. Anch’io ho gli occhi e vedo ciò che si fa qui. Dov'è la misericordia divina? dov'è Dio? come posso credere, come si può credere a questo Dio di misericordia?”
E c’è un passaggio, invece, di un detenuto italiano a Mauthausen che ricorda un prete e dice: “Usciti dalla doccia con solo una camicia di tela sul corpo ancora bagnato, dovendo aspettare su un camminamento tracciato nella neve l’arrivo del resto del gruppo. Era una notte gelida della metà di dicembre del ’44. mi era accanto intirizzito don Andrea Gaggero, gli occhi spalancati, quasi fuori dalle orbite, mi fissavano impietriti. Era il segnale che non eravamo più uomini, perché la nostra morte non disturbava l’organizzazione. Quando Andrea riuscì ad articolare qualche parola compresi tutto lo strazio che tormentava il suo animo. Ma Dio dov’è? Dov’è Dio, dimmelo!”
E anche qui è interessante. Spesso, quando si racconta in maniera superficiale le storie di chi è morto per i propri principi, di chi ha dato tutto per i propri principi, sembra, in maniera superficiale, che queste persone siano sempre state sicure della strada che hanno percorso, vanno alla morte coraggiose e fiere: ma non è, per fortuna, mai così. Sono persone che hanno avuto quotidianamente dubbi, che si sono tormentate, che continuamente si sono chieste: ma è possibile? Ma è pensabile? Continuamente si sono interrogate: quello che stiamo facendo noi è giusto? E quando la loro fede era messa alla prova, la loro riflessione era: possibile che Dio voglia questo?
La risposta che io ho cercato di darmi attraverso queste pagine e attraverso la riflessione è che in verità queste persone, e parlo nel caso specifico dei campi di concentramento, quando hanno mantenuto la fede l'hanno mantenuta nel dubbio, l'hanno mantenuta interloquendo continuamente, alimentando continuamente le loro riflessioni dubbiose.
C'è un passaggio bellissimo del libro di Elie Wiesel che si chiama “La notte”. Elie Wiesel viene deportato nei campi di concentramento piccolo, adolescente, era completamente, lo dice lui stesso nelle sue pagine, pieno della fede in Dio. A un certo punto nella sua baracca viene rubato un cucchiaio e quindi i tedeschi decidono di punire il responsabile. Prendono il più piccolo di questa baracca e lo impiccano. Il problema è che il suo corpo è così leggero e così reso fragile dalla fame, che il bambino non muore subito; il peso del suo corpo non riesce a tirargli il collo e quindi resta lì ad agonizzare. Wiesel non ce la fa e a un certo punto urla: “Dov'è Dio?” e c'è una persona che lui dice: non ricordo neanche più il viso, che gli arriva da dietro le spalle e dice: “Guarda – gli indica il bambino - Dio è lì”.
E lui dice: “Quella è una risposta che doveva generarmi ancora più rabbia, in realtà mi diede speranza”.
Ma che non sia retorica questa: cioè Dio è il bambino che sta agonizzando sulla forca, può sembrare la più retorica delle affermazioni, non lo è, perché è una traccia. La traccia qual è? L'unica speranza che ci resta nella aberrazione e nell'inferno, laddove salta ogni logica, è pensare che se stiamo salvando la dignità e la coscienza in un inferno del genere, stiamo salvando l'umanità. E quindi non c'è niente di più vicino a Dio che un gesto del genere per chi crede.
Come dire, si possono dire moltissime cose su queste singole storie: Sud America, Unione Sovietica, Germania, Asia, Africa, ma la prima, che sto ribadendo da quando ho iniziato a parlare, è proprio che continuamente si parla di qualcuno che tra la morte e la vita sceglie la vita, e non di qualcuno che attraverso il sacrificio crede di poter compiacere di più alla propria morale o al Dio in cui crede.
E d'altronde “tu sceglierei la vita” è uno degli insegnamenti classici che vengono dati dai rabbini appena i ragazzi cominciano a studiare i testi sacri, e la tradizione cristiana ha assolutamente preso dai cugini ebrei questo imperativo.
E leggere questo libro come un percorso di coloro che scelgono la vita è assai più stimolante che cadere in una trappola, diciamo, di lettura veloce: credere che tutto sommato queste persone hanno omaggiato la morte; alla morte sono arrivate sempre con l’estrema volontà di preservare la dignità, di salvare quanto di umano ci fosse.
Anna Politkovskaja viene uccisa in Russia dopo –uso queste parole perché siamo in questo contesto – aver testimoniato le atrocità della guerra cecena. Lei viene uccisa non perché ha raccontato la guerra cecena, ma perché è riuscita a rendere il problema ceceno un problema del mondo, perché è riuscita a rendere il problema ceceno un problema dell’umanità, cioè è diventato un problema di Roma, di Londra, di Washington, di Città del Messico, non più un problema disperso nella cronaca di tutti i giorni. Questo l’ha resa una testimone; qualcosa in più che una coraggiosa cronista.
Lei racconta delle cose incredibili: vi ricordate quando furono sequestrati in una scuola centinaia di bambini; lei ha raccolto le testimonianze di molte madri sopravvissute a Beslan, al sequestro fatto dai ceceni in una scuola russa. Racconti terrificanti. E faccio cenno soltanto a uno: a un certo punto i ceceni raccolgono maestre, professoresse, certamente anche madri, e i loro allievi in una zona della palestra di questa scuola. Circoscrivono le classi con dei fili ben tesi a cui sono appese delle granate: quindi stanno intimando loro di non muoversi, perché se un bambino cerca di scappare o fa un gesto violento, si spezza il filo e cade la granata. Così sono tutti fermi e costretti a non bere e a non mangiare: tra l’altro era estate e c’era molto caldo. A un certo punto un bambino molto piccolo inizia a piangere, perché aveva molta fame; una madre, una professoressa che era da poco diventata madre, aveva da poco sgravato, quindi aveva ancora latte, dice al bambino di attaccarsi al seno, ma il bambino è grande, si vergogna, non lo fa. Allora lei prende una scarpetta di questo bambino, cerca di versare il suo latte dentro, ma la suola assorbe il latte e quindi non va bene. Allora per puro caso, riesce a trovare, perché lo sapeva, in un cassetto di un armadietto che stava proprio nella sezione dove erano stati ammassati, un cucchiaio. Riempie di latte questo cucchiaio e inizia a dare il latte a questo bambino e poi a tutti i bambini che, per fame, perdono ogni inibizione e bevono questo latte. Se ne accorge un guerrigliero, fa saltare la granata: la maggior parte di questi bambini muore. Cala il buio in questo enorme stanzone e uno dei bambini si sente addosso cibo, in realtà era il sangue del bambino che gli era accanto, a cui era esplosa la testa; ma la maestra dice: “Non ti preoccupare hanno fatto saltare una bomba, si è rotta una credenza e ci è caduta addosso la marmellata.” E il bambino dice: “Io odio la marmellata”.
Questo racconto che è terribilmente atroce, traccia la testimonianza della umanità in quella situazione: c’è sempre il modo migliore per essere umani, c’è sempre una strada per salvare quella che Nabokov diceva: la forma migliore di essere umano, cioè il bambino.
E Anna Politkovskaja, quando andava a fare i suoi racconti, raccontava questo: raccontava la possibilità di essere uomini, e raccontava la possibilità di come l’uomo in questa situazione arrivasse nell’abisso.
Lei viene uccisa e prima ancora di essere uccisa viene diffamata. Il suo terrore, altro motivo fondamentale, era quello di venire diffamata, era quello che venisse distrutta la sua immagine. Quando viene uccisa, viene intervistato il suo ex-marito che dice: “Meglio così”. Una risposta molto dura, molto pesante. Dice “Sì, perché poco prima avevano tentato di sequestrarla, di narcotizzarla e di fare degli scatti osé, pornografici, con degli uomini, per poterla diffamare, fotografarla mentre era narcotizzata per distruggerne l’immagine. Chi avrebbe creduto nel mondo che quelle immagini erano state costruite?” Allora lui dice:”Se l’hanno uccisa, almeno salveranno le sue parole, perché hanno salvato la sua immagine.”
Per Anna Politkovskaja, come per tutti coloro che raccontano, la prima grande ossessione è la distruzione dell’immagine, perché tale condizione castra le tue parole, le rende spesso inutili, sussurra in chi ti ascolta la diffamazione, la diffidenza.
Queste storie sono tutte storie, benché diverse, in qualche modo simili a quella di Anna; sono tutte storie di esseri umani che devono anche difendere la propria integrità e la propria dignità.
I preti sudamericani, qui è raccontata la storia di Romero e non soltanto, continuamente vivono l’attacco diffamatorio. Don Peppino Diana, che viene ucciso a Casal di Principe per il suo impegno anti-camorra, continuamente, dal giorno dopo, viene accusato, anche dai suoi, dalle persone che lo avevano ascoltato a messa, dalle persone che lui aveva comunicato, che aveva sposato; lo iniziano a diffamare, a dire: “no, ma non è vero, lui è stato ucciso perché era un poco di buono, frequentava le donne.” Le solite storie! La diffamazione è una delle armi con cui si eliminano coloro che cercano di dare testimonianza.
Infine la riflessione che mi viene di fare, che poi è in continuità con la Comunità di Sant'Egidio, che poi è il motivo per cui sono qui con il cardinale Sepe, con chi ha in questi anni avuto una sorta, uso una parola forte, di ossessione: quello che noi facciamo da cristiani è un percorso che pone l’uomo come fine e mai come mezzo e quindi permette di praticare, di agire in modo tale, che non soltanto chi crede nei miei valori ne avrà beneficio. Questa, come dire, mi è sempre sembrata la caratteristica della Comunità di Sant'Egidio; è quello che in questi anni, difficilissimi per Napoli e per il Mezzogiorno italiano, certo per tutta Italia ma un po’ di più per le terre del Sud Italia, sta facendo il cardinale Sepe, e questo credo che permetta, anche per mezzo di questo libro, di capire quanto forte sia la capacità che abbiamo, che hanno anche i lettori quando leggono, di provare empatia per queste storie.
Mi era venuto in mente, mentre si parlava della tragedia russa, un verso della poetessa polacca, Szymborska; è un poetessa, premio Nobel, meravigliosa, forse in assoluto ha scritto tra i versi più alti mai scritti in Europa. C’è un verso che sicuramente potrà essere percepito come romantico, forse persino un po’ troppo ammiccante alla retorica, ma per rendere chiara la potenza, che è quello che ci rimane da uomini, la potenza di identificarsi e sentire nella propria carne il dolore e la felicità dell’altro, credo che questo verso non abbia uguali. Ed è molto semplice. Lei dice, dedicandolo forse alla persona amata, “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore”, semplicissimo, ma potentissimo alla stesso tempo.
Leggendo queste storie in qualche modo senti spesso palpitare la dignità e la resistenza di chi è morto per le proprie idee. Grazie.
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Testi: Intervento di Adriano Roccucci
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