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12 September 2017

Geografia del dolore

Il triste giro del mondo delle migrazioni forzate

Si parte da Africa, Asia e anche dal Messico per sfuggire a privazioni e pericoli. «I profughi ci raccontano dell'inferno dei centri di detenzione libici», ricorda Regina Catambrone dell'ong Moas. Che adesso opera nel Golfo del Bengala

 
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La migrazione forzata come condizione imprescindibile dell'essere umano. Dall'Africa verso l'Europa, dalla Birmania verso il Bangladesh, dal Messico verso gli Stati Uniti ma anche dall'Honduras verso il Messico. Il seminario su "Migranti: salvare, accogliere, integrare", uno dei 24 in corso all'incontro internazionale per la pace organizzato qui a Munster dalla Comunità di Sant'Egidio, è l'occasione per un giro del mondo tra umanità dolenti, lontane per latitudini, vicine per destino.
Shamin Mohammad Afzai dirige l'Islamic Foundation del Bangladesh. E rilancia l'appello per il popolo Rohingya, per l`'Onu una delle minoranze più perseguitate: «Sono fuggiti a migliaia dalla Birmania nel mio paese per salvarsi la vita, ci chiedono di aiutarli a tornare. Anche il Profeta ha sofferto la persecuzione». Un appello accolto "in diretta" da Regina Catrambone, l'imprenditrice che col marito ha creato il Moas, ong maltese di soccorso che dal 2014 ha salvato decine di migliaia di vite nel Mediterraneo. «Dalla scorsa settimana abbiamo interrotto le operazioni. Non vogliamo collaborare - spiega- alla strategia italiana tesa soprattutto al respingimento, senza alcun riguardo per il loro destino. I profughi ci raccontano dell'inferno dei centri di detenzione libici». Ma la nave Phoenix non resterà in porto: «Il 26 settembre arriverà nel golfo del Bengala per salvare i profughi Rohingya».
Aiutiamoli a casa loro, direbbero in molti. «Prima dovrebbero rendersi conto come è ridotta casa loro», replica Eugenio Bernardini, moderatore della Tavola valdese in Italia che con le Chiese evangeliche e Sant'Egidio gestisce il progetto italiano dei corridoi umanitari. E dice che «c'è un tempo per ogni cosa: per aiutarli a casa loro, per accoglierli, per costruire l'Africa nuova e per salvare chi muore nell'Africa vecchia. Il "piano Marshall" per l'Africa non deve essere l'alibi per alzare il muro della fortezza Europa. Altrimenti - avverte - è solo propaganda».
«Per alzare un muro basta un giorno, per abbatterlo 30 anni. Lo sappiamo bene noi tedeschi», dice Ursula Kalb, della comunità di Sant'Egidio in Germania. E ricorda lo sforzo generoso dei tanti tedeschi che nel 2015 accolsero migliaia e migliaia di siriani in fuga attraverso l'Ungheria: «Il profugo non è un problema, il profugo ha un problema. Servono vie legali per combattere i trafficanti e siamo lieti che Angela Merkel ne abbia parlato».
Josè Alejandro Solalinde Guerra è il sacerdote messicano minacciato dai narcos per il suo impegno a fianco dei migranti. Parla degli universitari americani che fanno volontariato nei "santuari", i centri di accoglienza per migranti: «Tornano negli Usa carichi di solidarietà». Denuncia la xenofobia e il razzismo prodotti da «un capitalismo materialista e disumano», contesta «Trump e il trumpismo che esiste ovunque. Anche tra la polizia migratoria messicana»: e mostra le foto dei migranti honduregni, ustionati dalle pistole elettriche, della bambina piena di lividi, del ragazzo coi denti spaccati. Perché c`è sempre qualcuno più a Sud di noi.



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