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10 Septembre 2012 09:30 | Priests’ House (Conference Hall)

Intervento di S. Em. Card. Antonio Maria Vegliò



Antonio Maria Vegliò


Cardinal, Président du Conseil Pontifical pour les Migrants, Saint-Siège

 La sollecitudine pastorale della Chiesa in campo migratorio ha cominciato a prendere forma stabile, strutturata e via via sempre più capillare a partire dalla seconda metà del secolo XIX, quando l’emigrazione italiana divenne fenomeno di massa, sotto la spinta di acute e spesso drammatiche situazioni di povertà e di insicurezza economica. Da allora altre correnti migratorie sono sorte e si sono sviluppate a livello mondiale, fino a raggiungere la cifra di 214 milioni di persone che l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni stima siano oggi coinvolte nel fenomeno migratorio.

Nel suo servizio pastorale, la Chiesa non si rivolge soltanto ai credenti “e a tutti coloro che invocano il nome di Cristo, ma a tutti gli uomini. – sto citando la Costituzione Apostolica Gaudium et spes – A tutti vuol esporre come intende la presenza e l’azione della Chiesa nel mondo contemporaneo” (n. 2). Dunque, la Chiesa è attenta a promuovere un “umanesimo planetario”, per usare l’espressione dell’Enciclica Populorum progressio di Paolo VI, intendendo con ciò “lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini” (n. 42). Con le parole del Santo Padre Benedetto XVI, questo significa assumere una “visione integrale dell’uomo, che rispecchi i vari aspetti della persona umana, contemplata con lo sguardo purificato dalla carità” (Caritas in veritate n. 32).
Naturalmente in questa visione sono compresi anche tutti coloro che, per diverse ragioni, sono coinvolti nelle migrazioni. In questo campo, soprattutto nel rapporto tra l’immigrato e la nuova società che lo accoglie, la Chiesa parla volentieri di “integrazione” come valore che va realizzato anzitutto all’interno della comunità ecclesiale, prima ancora che nella società civile. A tale proposito, mi pare molto significativo che il primo messaggio per la Giornata mondiale delle migrazioni firmato da Giovanni Paolo II, nel 1986, abbia avuto per tema proprio l’integrazione ecclesiale dei migranti, dove si ribadisce che “la libera integrazione dei migranti, nel suo evolversi e nel suo realizzarsi, è basata sulla natura della Chiesa, che è realtà di fede e di carità”.
Il termine “integrazione”, ovviamente, ha un valore relativo e può essere chiarito con altre realtà come inserimento, partecipazione, inclusione e persino comunione. È importante, anzitutto, sottolineare i due estremi da cui è necessario sottrarsi: da una parte quello dell’assimilazione, che pregiudica l’identità del soggetto e del gruppo etnico immigrato, e dall’altra quello dell’esclusione, che invece emargina le persone dalla società maggioritaria, con il rischio di creare situazioni di ghetto che favoriscono il degrado e, talvolta, anche la delinquenza.
Poste queste premesse, per un autentico cammino di integrazione trovo opportuno sottolineare il pericolo di un doppio equivoco. 
Anzitutto quello di ritenere che l’integrazione si svolga su un piano puramente umanitario, come risposta alle emergenze. Questo primo quadro d’intervento è senza dubbio importante e potremmo definirlo una sorta di “assistenza in genere (o prima accoglienza, piuttosto limitata nel tempo)”, come si legge nell’Istruzione Erga migrantes caritas Christi, del nostro Pontificio Consiglio (n. 42). Dal punto di vista della Chiesa, invece, l’impegno sociale e umanitario trova forza nella sua missione, in fedeltà al Vangelo, di promuovere appunto l’“uomo integrale”, con un’azione “che non si esaurisce nelle sue attività di assistenza o di educazione, ma rivela tutte le proprie energie a servizio della promozione dell’uomo e della fraternità universale” (Caritas in veritate n. 11).
Un secondo equivoco, nei processi di integrazione, riguarda il concetto di supplenza. In effetti, mentre interviene in campo caritativo-assistenziale, la Chiesa non intende semplicemente colmare un vuoto e supplire all’assenza delle istituzioni pubbliche. Purtroppo, a volte la Chiesa si trova da sola a gestire situazioni d’emergenza e a difendere la dignità umana dei migranti. Sotto tale profilo, il Santo Padre Benedetto XVI ha ricordato, ad esempio, che “sono stati aperti Centri di ascolto dei migranti, Case per accoglierli, Uffici per servizi alle persone e alle famiglie, e si è dato vita ad altre iniziative per rispondere alle crescenti esigenze in questo campo” (Messaggio per la giornata mondiale del 2007).
Se, tuttavia, l’azione di soccorso della Chiesa mira a rispondere ai bisogni primari nella vita dei migranti e alle loro esigenze riguardanti la salute, l’istruzione, i rapporti sociali, le questioni abitative e di impiego, essa agisce altresì con la consapevolezza che tutto ciò deve continuare anche dopo il primo intervento, in un clima di dialogo e di collaborazione con tutte le istituzioni, soprattutto nell’elaborazione di adeguati sistemi normativi, come ancora ha voluto ribadire Benedetto XVI nel Messaggio appena citato: “la Chiesa incoraggia la ratifica degli strumenti internazionali legali tesi a difendere i diritti dei migranti, dei rifugiati e delle loro famiglie, ed offre, in varie sue Istituzioni e Associazioni, quell’advocacy che si rende sempre più necessaria” (Ibidem).
Nel 1991, Giovanni Paolo II, riferendosi alla Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, affermava che “la Santa Sede ritiene quanto mai opportuna la nuova Convenzione, alla cui elaborazione ha attivamente contribuito, auspicando che sempre più trovi spazio nel diritto internazionale la protezione delle persone sradicate dalla loro terra e lontane dai loro familiari”. Tale pensiero, poi, è stato ripreso da Benedetto XVI, nel medesimo Messaggio al quale ho fatto riferimento poc’anzi.
Si tratta, in definitiva, di un itinerario indispensabile sulla via dell’integrazione dei migranti, una volta oltrepassata la soglia dell’emergenza. La strada maestra è quella dell’adozione di adeguate politiche migratorie, che non vanno affidate al caso o all’intuito di qualche uomo politico e nemmeno alla buona volontà di qualche istituzione. È necessario elaborare precise normative che assicurino stabilità e garantiscano a tutti la salvaguardia dei propri diritti, senza dimenticare di inculcare in ciascuno l’obbligatorietà dei relativi doveri. 
La Chiesa non rivendica né compiti specifici né particolari competenze nell’elaborazione di tali quadri normativi. Mentre è attenta a non interferire nella gestione di compiti che spettano alle istituzioni civili, essa si riserva, però, di concorrere con opportune proposte perché le misure che gli Stati o la Comunità internazionale intendono adottare si ispirino ai diritti fondamentali che ho enunciato e alla grande tradizione della civiltà cristiana, di cui la Chiesa è depositaria. Tocca poi ai laici cristiani, ai gruppi, alle associazioni e agli organismi di ispirazione ecclesiale assicurare una maggiore concretezza a tali orientamenti, in base alla loro specifica competenza ed esperienza, sollecitando, di conseguenza, precise scelte operative.
Va poi ricordato quello che dovrebbe essere l’esito finale dei processi di integrazione nelle migrazioni, cioè il passaggio da società multiculturali, in cui popoli e culture sono semplicemente accostati e giustapposti, a società interculturali, in cui le culture e i gruppi etnici interagiscono tra di loro, con reciproca valorizzazione e vicendevole scambio. 
La Chiesa si rende conto della complessità del problema, basti ricordare il rapporto, sempre difficile, tra culture dominanti e culture minoritarie oppure l’interazione tra fedeli appartenenti a diverse religioni. Ma tali difficoltà, se suggeriscono pazienza e prudenza, non devono compromettere l’orientamento verso cui le società sono oggi avviate, nella costruzione di fruttuosi itinerari di integrazione. Primo tra questi è senz’altro quello che chiama in campo il pluralismo culturale nell’accezione più corrente della compresenza, fatta almeno di tolleranza e di rispetto, tra diversi mondi culturali l’uno accanto all’altro. Esso deve gradualmente cedere il passo alla forma più piena e audace dell’interculturalismo quale scambio di valori, quasi inter-fecondazione fra culture diverse. Senza massimalismi e ingenuità la Chiesa punta a questo traguardo, ben descritto dalle parole di Giovanni Paolo II: “l’esperienza mostra che quando una nazione ha il coraggio di aprirsi alle migrazioni, viene premiata da un accresciuto benessere, da un solido rinnovamento sociale e da una vigorosa spinta verso inediti traguardi economici e umani” (Messaggio per la giornata mondiale del 1992).
Ad ogni buon conto, l’integrazione è innanzitutto una questione di relazioni tra persone di diverse appartenenze e identità, che condividono però lo stesso spazio fisico, sociale, amministrativo e politico. Alla fine, dunque, non sono le diverse culture che si incontrano o si scontrano, ma le persone che ne sono portatrici. D’altra parte, nessun essere umano oggi ha elaborato un’unica appartenenza monolitica, ma individui, gruppi e società sono incessantemente obbligati a confrontarsi con orizzonti culturali in continuo cambiamento.
L’integrazione, poi, è soprattutto un processo di tutta la società, degli uni e degli altri, che deve includere la dimensione economica, sociale, politica e religiosa del fenomeno, senza le quali non si compie una vera integrazione.
Esso, infine, coinvolge anche le diverse appartenenze – etniche, nazionali, religiose, politiche, professionali, ecc. – cui fa riferimento la persona nella propria esistenza; è quindi un processo che coinvolge gruppi portatori di specifiche identità, anche collettive, che sono a loro volta costantemente sollecitate dal cambiamento, se non altro per la stessa evoluzione identitaria dei propri membri, soprattutto quelli delle giovani generazioni.
La sfida, allora, si gioca sull’esperienza ormai consolidata di alcuni Paesi, che può aiutarci a evitare gli effetti negativi sia delle impostazioni assimilazioniste, dove le diversità delle appartenenze e la loro evoluzione non hanno trovato sempre buona accoglienza, che di quelle separatiste, dove il rispetto e la preservazione delle diversità può diventare alibi per evitare la contaminazione generata dalla quotidianità dei rapporti interpersonali e intercomunitari.
Ad ogni modo, dobbiamo chiederci se sia possibile elaborare una nuova via all’integrazione, non come soluzione studiata a tavolino, ma come sperimentazione di un processo di coesione e partecipazione. Credo che ciò sia possibile nella misura in cui sapremo diffondere la consapevolezza che la presenza dei migranti non è passeggera ma strutturale e che essa è “una grande risorsa per il cammino dell’umanità” (Benedetto XVI, Angelus del 14 gennaio 2007).
Infine, è importante permettere agli stessi migranti di prender parte nella progettazione delle politiche sull’emigrazione. Le organizzazioni giovanili, in questo, giocano un ruolo chiave. I giovani stanno orientando diversamente la coscienza comune, da una percezione negativa delle migrazioni a una positiva. Questi giovani devono avere un ruolo attivo nel concentrare gli sforzi della società, delle organizzazioni internazionali e delle istituzioni educative nell’affrontare tali problematiche.
Una delle sfide più impegnative del terzo millennio è dunque quella di imparare a vivere uniti nella diversità e nella molteplicità delle culture, delle etnie e delle religioni. Il rispetto e il riconoscimento delle diverse identità culturali non devono creare ostacoli, ma proporsi come condizione essenziale per la costruzione di una umanità unita nella pluralità.

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