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8 Septiembre 2014 16:30 | Thomas More, Campus Carolus, Aula 109

Intervento



Valérie Régnier


Comunidad de Sant'Egidio, Francia

Una città di periferie

Nella sua definizione della città, Diderot indica che “la prima città fu costruita da Caino. Nemrod, che era cattivo, e che influenzò fra i primi il regno, fu anche un fondatore di città. Noi vediamo nascere e crescere la corruzione e i vizi, con la nascita e la crescita della città.” Prosegue il filosofo dell’Illuminismo.

Questa visione negativa, caotica e nefasta della città può ancora trovare un eco oggi, mentre dal 2006 per la prima volta nella storia dell’umanità, la popolazione delle città ha superato quella delle campagne. Noi viviamo ormai in un mondo urbano. La storia si scrive nelle città; il pianeta stesso diviene una città globale, una città mondo. E in questo mondo di città, si pone il problema delle periferie.

Se la globalizzazione ha accorciato le distanze negli scambi e nelle comunicazioni, essa ha paradossalmente scavato un fossato fra il centro e le periferie. Il volto della nuova città-mondo è già sfregiato da muri e barriere. In Occidente (Europa e UE) le periferie divenute multiple, faticano a raggiungere il centro politico, culturale e economico. Pensiamo alla distribuzione ingiusta delle opportunità, ai limiti posti all’accesso all’istruzione, alla sanità e alle infrastrutture, che sono così tanto delle garanzie per la qualità della vita. Ma soprattutto nel grande sud del mondo le città sono divenute altro da quello che siamo abituati a vedere qui: si tratta di megalopoli senza centro, o con diversi centri. Delle città fuori centro potremmo dire: queste città sono costituite di diverse periferie e il centro scompare. Penso a Lagos, Kinshasa, ma anche a Città del Messico o a Buenos Aires. Non è per caso che Papa Francesco parla di “periferie umane e urbane”. Lui conosce queste città fuori dal centro. La periferia diviene una specie di centro per antonomasia.

Queste città hanno bisogno di prossimità umana, capace di creare e ricreare legami, di forgiare delle comunità, di far sentire a ogni periferia che essa è al centro di un interesse.

L’uomo della città: un essere periferico

E’ uno dei paradossi della globalizzazione. Nella nostra città mondo, gli uomini e le donne periferici e disorientati subiscono fortemente l’anonimato, l’insignificanza, la precarietà, l’isolamento che li minaccia. I flussi migratori provocati dalla globalizzazione e l’urbanizzazione hanno cambiato il volto delle città: ogni città ormai è una coabitazione di persone di origini, di culture, di religioni diverse. Si vive sempre più accanto gli uni agli altri senza essere vicini. Il pregiudizio può allora divenire un’arma di difesa. In queste megalopoli la presenza cristiana non è più evidente, anche i cristiani possono divenire periferici: ma questo non succedeva anche nei primi secoli? Le grandi basiliche romane furono costruite tutte in periferia… Quella dell’epoca, certo. 

Cosa può fare un piccolo numero di cristiani nella città di oggi? Quale esperienza portare a esseri spaesati, spauriti per la presenza dell’altro, isolati nella loro ricerca materiale, consegnati alle regole del mercato e del “salva te stesso”? Cosa possono fare i cristiani perché la vita nella città-mondo non diventi assurda? E’ un interrogativo che non è nuovo. Così nella mia città, Parigi, la Chiesa si interroga da molto tempo sulla realtà della vita cristiana nella città. Un vicario parigino anonimo scriveva al suo arcivescovo, nel 1849, due lettere sulla crisi della Chiesa nella città. Queste due lettere unite avevano per titolo:”la religione è perduta a Parigi…” secondo lui, molti parigini vivevano e morivano lontano dalla Chiesa. Bisognava riformare le strutture parrocchiali creando un clero missionario. Nel mezzo dell’ultimo secolo, il Card. Suhard si allarmava a sua volta dello stato di scristianizzazione della periferia parigina, delle popolazioni “perdute” per la Chiesa, lasciate a loro stesse. Questo stato di abbandono l’aveva spinto a mandare dei preti per condividere la condizione degli operai nella periferia. Così nasce la Missione di Parigi nel 1944. E’ questa storia che racconta il libro di Gilbert Cesbron con il titol significativo “I santi vanno all’inferno”.

Nella postfazione della riedizione del libro in italiano pubblicato recentemente, Andrea Riccardi scrive: “La lettura di questo romanzo, ma soprattutto l’esperienza di questa umanità dolorosa della periferia romana, fatta per la maggior parte di immigrati meridionali, spinse la prima generazione di Sant’Egidio, giovani, a impegnarsi nel mondo delle periferie, perché crescesse la dimensione della solidarietà e rinascesse una Chiesa-comunità fra persone semplici, in difficoltà, provate dalla vita… nel quadro di un cristianesimo popolare, fortemente ancorato alla lettura della Bibbia e alla Liturgia, nascevano allora delle comunità di Sant’Egidio che avevano come luogo di incontro e di preghiera dei magazzini, dei seminterrati o anche dei centri sociali. C’era una passione per la periferia umana e urbana nelle sue pagine che trovava una conferma e un sostegno, se non una ispirazione.” La Chiesa, riparte sempre dalla periferia…

La vita di Sant’Egidio oggi nella città-mondo: un santuario di gratuità

Da allora, la Comunità di Sant’Egidio non smette di lavorare con i poveri, con le categorie meno favorite nelle periferie di molte città del mondo, cercando di colmare il fossato esistente e di ricostruire il tessuto umano e sociale li dove esso è lacerato o dove non è mai esistito. Si tratta anche di andare nelle “periferie esistenziali”: la dove risiede il mistero del peccato, il dolore, l’ingiustizia, l’ignoranza” come l’esortò il cardinale Bergoglio durante una assemblea precedente al conclave nel 2013. Non si tratta soltanto di problemi sociali, ma soprattutto umani. Quando la povertà diviene insostenibile, essa si accompagna all’esclusione e al disprezzo. Bisogna quindi creare degli spazi di incontro dove ci sia spazio per tutti e dove si possa instaurare un dialogo cittadino, una cultura del vivere insieme. Si tratta di fare della città il luogo del vivere insieme.

A Parigi, la Comunità di Sant’Egidio è presente al centro alla Cappella San Bernardo, vicino alla stazione di Montparnasse , attraversata  ogni settimana da un milione di persone. Come divenire santuario nella città?

Sant’Egidio è anche presente nella periferia di Parigi à Charenton-le-Pont, città che costeggia il Bois de Vincennes dove risiedono più di 200 senza fissa dimora di tutte le nazionalità.

Ecco la nostra sfida: l’arte di vivere insieme nella nostra città. E’ allo stesso tempo una sfida e una responsabilità.

Attraverso le feste, la creazione di movimenti, di incontri e di scambi, Sant’Egidio crea spazi di incontro e costruisce dei ponti. Lavorare all’arte dell’incontro per fare della città-mondo una città umana, solidale, amica dei poveri e amica della pace. Ricostruire la prossimità fra le persone della città è la risposta che noi possiamo dare a una città che ha perduto il suo centro. E’ una risposta cristiana che viene dal cuore della fede dei credenti come ha detto Andrea Riccardi, al collège des Bernardins, grande centro culturale cattolico voluto dal cardinale Lustiger, durante il suo discorso inaugurale della Cattedra che ha presieduto in questi due anni passati: “La prossimità umana, non episodica o funzionale, ma fondata sulla gratuità è naturalmente legata al cristianesimo. La coscienza antica della Genesi afferma:” Non è buono che l’uomo sia solo”. La domanda che Dio pone a colui che uccide o elimina suo fratello resta evidente:”Dov’è tuo fratello?” E Gesù spiega, con la parabola del Buon Samaritano, che il povero, che per definizione è inutile, si impone nella geografia della prossimità (…) La destrutturazione della prossimità è inaccettabile per il cristianesimo; fraternità, prossimità con i poveri, comunione fra le persone sono valori indispensabili”.

Andare incontro ai poveri, come con i nostri amici senza dimora ai piedi della cattedrale Notre Dame nel cuore di Parigi o al Bois des Vincennes in periferia. Allo stesso modo, dei giovani si rendono in maniera assidua vicini alle persone anziane che vivono negli istituti.

Bisogna immaginare delle strategie creative di coesione umana per superare le difficoltà del vivere insieme nelle nostre città. Lo storico e sociologo Emile Poulat ama definire Sant’Egidio con le tre P: la preghiera, i poveri, la pace (anche il Papa l’ha detto). Luoghi di preghiera, di amicizia con i poveri, di costruzione della pace, ecco la definizione che vorremmo dare alla città.

La città può essere un’opportunità per sviluppare una cultura di pace alla quale tutti possono lavorare e contribuire, è la nostra convinzione profonda.

 

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