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26 Agost 2016

Storia di copertina. Il Papa incontra l'Islam

Francesco sta salvando le nostre radici cristiane e sta aiutando i musulmani a costruire quel rinascimento senza pregiudizi che noi abbiamo già conosciuto

 
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Qualche tempo fa è uscito un libro con un titolo provocatorio e velenosamente ingiusto: Non è Francesco. Assai più limpido era il significato della canzone al femminile di Lucio Battisti, Non è Francesca. Almeno quella era una storia vera, figlia dei tormenti dell'amore, che è sempre l'obiettivo e la speranza della vita.
Papa Francesco, piaccia o no, è invece per davvero Francesco. Un Francesco del nostro tempo, del terzo millennio, generoso, autentico. Un Papa che sa essere uomo, che pensa alle periferie, ai poveri, ai migranti, agli emarginati, ai malati, agli ultimi; che non crede alle guerre di religione, che rispetta l'Islam, che inneggia alla misericordia e al perdono, che nel campo di sterminio di Auschwitz mostra al mondo il valore del silenzio. «Straordinaria testimonianza», l'ha definita la sopravvissuta alla Shoah Liliana Segre.
Francesco è poi capace, con coinvolgente astuzia, che a volte ricorda il Don Camillo di Guareschi, di trasformarsi in leader politico, alla guida di un mondo sbandato. Nei suoi brevi sermoni domenicali, c'è sempre il richiamo al Vangelo, e poi la testimonianza sui problemi che ci assillano. La gente lo sente, e avverte che c'è piena sintonia tra quello che il Papa esprime e ciò che pensa. Lo dico da laico, nato in una famiglia profondamente
cattolica. Mi viene voglia di dire alto e forte: questo pontefice trovato "alla fine del mondo", ha salvato la Chiesa da un indubbio declino. Il cardinale Tarcisio Bertone, allora arcivescovo di Genova, mi diede un'intervista per Tele 2000, ammettendo che vi era una gravissima crisi di partecipazioni alla Messa e un fortissimo calo di vocazioni religiose. Se non ci fossero stati gli immigrati a riempire il vuoto delle chiese, spesso per rivendicare la propria appartenenza e la coesione delle loro rispettive comunità, vi sarebbe stato un crollo devastante di presenze. Verissimo. Francesco ha insomma salvato, con il suo slancio vincente, anche le nostre radici, con la forza del dialogo, capovolgendo l'idea che i vertici ecclesiastici debbano pensare con troppa intensità alla forma, alle croci d'oro, alle tiare tempestate di diamanti, all'esteriorità, invece di curarsi dei bisogni e delle debolezze dei propri fedeli. Consiglio sempre ai miei amici di leggere il libro di Juan Maria Laboa Gesù a Roma (Jaca Book), uscito in Spagna un anno prima delle dimissioni di Papa Benedetto XVI, e in Italia durante l'ultimo Conclave. Libro serio e insieme molto divertente e dissacrante, con tutti i personaggi politici e religiosi che conosciamo bene, in quanto sono proprio quelli di oggi.
Francesco è ostinatamente (e fortunatamente) il Papa della pacificazione con tutti. In questo somiglia a Giovanni XXIII, che la curia romana riteneva una "tollerabile e controllabile guida transitoria", e che invece promosse lo storico Concilio Vaticano II,
il Concilio del dialogo planetario, con la fine della scomunica per chi la pensava diversamente. Fino ad allora, infatti, un comunista era automaticamente scomunicato. Un Papa sorprendente e affascinante, Angelo Roncalli (l'ho conosciuto da ragazzino a Castel Gandolfo). Mi chiedo se tanti improvvisati studiosi sappiano ciò che fece il futuro Giovanni XXIII a Sofia e a Istanbul, per salvare gli ebrei e per dialogare con l'Islam. Francesco ha poi la saggezza di Paolo VI, che ha completato l'opera riformatrice di Roncalli. Ed ha la grinta di Giovanni Paolo Il, che veniva dall'Est ma non era sensibile alle lusinghe del capitalismo.
Oggi c'è chi si chiede se vi siano guerre tra le religioni o se stiamo assistendo a una guerra di religione. Mi convince, ma solo in parte, la seconda ipotesi, se però ci riferiamo a "guerra all'interno di una religione", perchè il conflitto vero è tra musulmani sunniti e
musulmani sciiti. Noi cristiani siamo soltanto un utile e terribile effetto collaterale, sostanzialmente propagandistico. Vorrei ricordare la lezione di Giovanni Paolo II, proclamato santo, che dopo l'11 settembre 2001, quando il mondo era choccato dall'attacco all'America, e Oriana Fallaci scriveva "La rabbia e l'orgoglio" seppellendo di insulti l'Islam senza alcun distinguo, si schierò in difesa dell'Islam moderato. Karol Wojtyla, un polacco sanguigno ma indubbiamente saggio ed equilibrato, capì il pericolo con straordinaria preveggenza. Nella sua visita in Libano fu accolto entusiasticamente, come un portatore di fede, dall'Hezbollah filo-iraniano, e la sera andò a confortare i cristiani maroniti. Nel 2003, mentre un mondo occidentale vendicativo e viscerale andava a colpire l'Iraq di Saddam Hussein, che con l'11 settembre non c'entrava nulla, si schierò senza se e senza ma contro la guerra. Coerente fino alla morte.
Benedetto XVI, il suo successore, era assai diverso. Troppo studioso, e forse troppo intellettuale per confrontarsi con un mondo privo di spessore. Lontano insomma dal condividere la gioia di vivere in mezzo agli altri, accettandone anche le debolezze. A Roma ho individuato, dopo qualche ricerca (cercare è sempre stimolante) il ristorante dove, da cardinale, Joseph Ratzinger ogni tanto andava a pranzo, e ho saputo che pasteggiava con l'aranciata. Un uomo affascinato dai suoi studi. «Legge e studia sempre», mi raccontavano gli amici della Radio Vaticana.
Proprio sull'islam, Ratzinger ha fatto alcune scivolate preoccupanti. Una, prima di diventare Papa, l'altra dopo la sua elezione. Ero a Lisbona, per una conferenza della Comunità di 
Sant'Egidio, e il futuro Papa aveva scritto la Dominus Jesus, che in sostanza anticipava il tema della superiorità del cristianesimo sulle altre religioni. Gli stessi organizzatori dell'incontro di Lisbona, al quale partecipano da sempre i rappresentanti di tutte le religioni, erano turbati. Giovanni Paolo II, per quanto ne so, li aveva confortati. «Voi andate avanti sulla via del dialogo». Gli amici musulmani, legati alla Comunità di Sant'Egidio, capirono l'imbarazzo. Il fratello del defunto Re Hussein di Giordania, il principe Hassan Bin Talal, ospite del meeting, fu tra i primi. Come diretto discendente del profeta Maometto, se ne uscì con una battuta tranquillizzante e lapidaria: «La Dominus Jesus in fondo è un documento, non un'enciclica».
Il rischio, con la nomina di Joseph Ratzinger, era che si accentuasse, forse per difetto di comprensione, o per presunzione del colto pontefice, quella divisione. Papa Benedetto XVI, indubbiamente in balia delle pressioni di qualche cardinale-caporione della curia (a proposito, se non l'
avete visto, cercate di vedere il film di Nanni Moretti "Habemus Papam"), commise, praticamente all'esordio, la gaffe di Ratisbona. Un discorso da cattedratico, dove però reiterava il concetto dell'assoluta superiorità del cristianesimo. La prima reazione, durissima, fu proprio della Turchia, e dei predicatori allora più tranquilli dell'intero Islam. Ratzinger forse rifiutava l'idea di una sbagliata percezione del suo messaggio. Però non poteva ignorare che era di moda attaccare i musulmani, senza alcun distinguo, coniugandosi alle viscere di alcuni "pseudo-profeti", imbevuti dal violento attacco della mia amica Oriana Fallaci, straordinaria scrittrice, che però sembrava esaltare la scoperta scientifica (autentica) che i neuroni non sono soltanto nel cervello ma anche nell'intestino. Pur non essendo in contatto con quelli principali.
Quando, dopo le clamorose dimissioni di Benedetto XVI, è stato eletto Francesco, già si sapeva che il nuovo pontefice sarebbe stato un convinto sostenitore del dialogo con tutte le religioni, e l'apostolo di una nuova Chiesa. Bergoglio veniva dall'esperienza di arcivescovo di frontiera, nella lontana Buenos Aires, terra di immigrati, di emozioni, di passioni, ma anche di profonda solidarietà umana. Un Papa argentino, un americano, come aveva previsto il nostro Luigi Accattoli, non un europeo, talora figlio delle nostre paure e della nostra presunta e sbandierata superiorità. Un Papa moderno, che sapeva benissimo che l'unica possibilità era tendere la mano al mondo, credenti, agnostici e atei.
I musulmani sono oltre un miliardo e settecento milioni, e chi ha conosciuto l'islam sa bene che gli estremisti sono un'infima minoranza, mentre la stragrande maggioranza va aiutata a costruirsi quel rinascimento senza pregiudizi che noi cristiani, per fortuna, abbiamo conosciuto. Francesco non è uno sprovveduto né tantomeno un pavido, come sostiene qualche osservatore superficiale. È un pontefice assai avveduto e preparato. Se qualche secolo fa vi fossero state la Cnn, la Bbc, AI Jazeera e Al Arabia, credo che avrebbero avuto qualche difficoltà a raccontare le spaventose violenze della cristianità.
Persino sull'iconoclastia, discusso "patrimonio" islamico, si leggono spesso visioni approssimative e limitate. Come ha scritto Flavio Caroli, storico dell'arte moderna e contemporanea, nella prefazione del libro di Viviano Domenici "Contro la bellezza", l'iconoclastia «è stato un problema globale, e le "guerre iconoclaste", nel mondo cristiano, sono state le più spaventose della storia dell'umanità». Quando è stato eletto Francesco, mi ha colpito ovviamente quello spontaneo ed educato "Buona sera", da gentiluomo argentino di origine italiana. Quando ho cominciato ad ascoltarlo costantemente, mi ha affascinato quel tono familiare, appunto da parroco globale, comprensivo, tollerante e senza complessi, che alla fine augura a tutti, alla domenica, un "Buon pranzo". Mi stuzzicava l'idea della sua amicizia con Eugenio Scalfari, granitico laico con qualche cedimento, anche se non lo dice apertamente. Confesso che anch'io vorrei abbracciare Francesco, come gli chiese (e ottenne) Scalfari.
La mia amica Rita Pavone, cantante dalla voce straordinaria e presenza musicale dei miei anni giovanili, mi ha raccontato d'aver ricevuto una telefonata di auguri da Francesco. Pensava fosse
uno scherzo, invece era tutto vero. Strano? Macchè! Normalissimo. Rita, quando cantava La partita di pallone, Come te non c`è nessuno e Cuore, era popolarissima anche in Argentina, e un uomo curioso come Francesco, a Buenos Aires, era un suo fan.
Un collega del Washington Post ha chiesto, ad Amman, durante la visita di Francesco, qual è il segreto di questo Papa. Ho risposto di getto: «Semplice. È il Papa dei credenti ed è il Papa dei non credenti». Ilcollega mi ha osservato perplesso, per poi schioccare le dita: «You are right!», hai ragione.
Il grande imam di Al Ahzar, la culla
del pensiero sunnita che si trova al Cairo, Ahmed al Tayyib, ha incontrato Francesco, riconoscendogli un ruolo che mai la più alta autorità musulmana sunnita aveva riconosciuto. Si, perchè, come ha scritto Francesco Peloso su Internazionale, «entrambi, il Papa e il Grande Imam, criticano la globalizzazione come modello uniformante delle culture e delle società. Credono invece in sistemi complessi e aperti in cui riescano a convivere identità differenti, che non devono sciogliersi in un magma indistinto ma nemmeno chiudersi in un integralismo settario». Quell'incontro di mezz'ora, in Vaticano, ha segnato davvero una grande svolta. Se ora si sono alzate molte voci islamiche contro gli assassini dell'Isis e i loro imitatori solitari, lo si deve anche a Francesco e al suo coraggio. La prova di solidarietà, con la partecipazione dei musulmani alla Messa dopo l'assassinio del parroco di Rouen, è stato un passo importantissimo. E poi dichiarare, come ha scritto con intensità e precisione, nella sua intervista sull'aereo papale dopo il viaggio a Cracovia, il nostro vaticanista Gian Guido Vecchi, che «in tutte le religioni vi sono forze minoritarie estremiste» è una verità indiscutibile. Per chi non ha paraocchi politici o ideologici, questi estremismi esistono nell'Islam, nel mondo cristiano (persino in Italia) e fra gli ebrei. Leggete qualche giornale israeliano, se avete dei dubbi.
Certo, anche su Francesco non mi lascio incantare, e voglio sempre controllare di persona, come un moderno Tommaso. Un giornalista, se vuole essere credibile, ha sempre da soddisfare tutti i possibili dubbi. Pochi anni fa, l'allora direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli mi affidò, assieme alla giovane collega Alessia Rastelli, con la quale avevo realizzato alcune web-serie sui sopravvissuti all'Olocausto, il compito di studiare e poi partecipare a un lavoro a puntate (audio, video e scritto) per il nostro sito e le nostre piattaforme, sulla storia di Vera Vigevani Jarach, una delle fondatrici del movimento delle Madri di Plaza de Mayo. Questa donna straordinaria, dura come il diamante, è un'ebrea che da bambi
na fuggì con la famiglia in Argentina, dopo le leggi razziali. Si salvò dallo sterminio non come il nonno, che decise di restare a Milano e fu deportato ad Auschwitz, dove morì. Vera si sposò a Buenos Aires, ebbe una figlia che, a 17 anni, si ribellò contro l'orrenda giunta filonazista del dittatore criminale Videla. Franca, questo era il nome della ragazza, fu catturata come oppositrice dagli aguzzini, la imprigionarono all'Esma, la scuola militare della Marina, la misero su un aereo e la lanciarono, viva, nel Mar de la Plata.
Il film decidemmo di affidarlo a Marco Berhis, a sua volta vittima e ostaggio della dittatura di Videla, già regista di Garage Olimpo. Andai con Alessia Rastelli a Buenos Aires, e visto che in Italia si erano diffuse voci sul silenzio del vescovo Bergoglio negli anni della vergogna argentina, cominciai a indagare. Ho parlato con ex deportati, che ancora lavorano all'Esma, ho trascorso ore e ore nelle librerie, nelle chiese, nei negozi vicini a Plaza de Mayo, e anche nelle periferie della capitale. Nessuno, dico nessuno, ha accusato il Papa d'essere stato complice. Anzi, più d'uno mi ha detto: «Al contrario, ha aiutato con discrezione tutte le vittime e i loro familiari». Mi sono arrabbiato. Certa propaganda, di estrema destra da una parte, e delle frange dell'estrema sinistra borghese (ahimè, è sempre così) dall'altra, avevano imbastito una collana di menzogne. Francesco ne è uscito assolutamente limpido.
Per contro, nel passato, vi sono state ben più pe
santi accuse contro Pio XII, durante il nazismo. Che la Chiesa di allora avesse avuto più d'un cedimento nei confronti del regime di Adolf Hitler è indubbio. Però, visto che non mi accontento di veline, di propaganda, di interessati salotti borghesi, trovandomi a Praga per alcune conferenze sui Giusti del mondo, ho cominciato a raccogliere, due anni fa, preziose e aggiornate testimoniane su monsignor Josef Tiso, il politico-religioso cattolico che raggiunse il potere nel 1938, e che divenne, da Bratislava, il primo alleato di Hitler. Pensate che Tiso cominciò la deportazione degli ebrei slovacchi nel 1942, pagando persino ai tedeschi 500 marchi a deportato perché accogliessero quella forza-lavoro. Fino a quando, grazie a un nunzio apostolico coraggioso e intrepido, e sicuramente allo stesso Pacelli, lo ammonirono, portandogli le prove che gli ebrei venivano inviati nelle camere a gas. La deportazione fu sospesa, Tiso fuggì, e fu poi giustiziato. Ma questo dimostra che la verità storica è sempre assai complessa, e prima di giudicare occorre sapere, non seguendo le mode bizzose e gli imperativi di una terrazza romana o di un salotto milanese.
Di Francesco mi fido, istintivamente e in maniera convinta. Anche perchè lo considero l'unico leader politico di questo tribolato momento. Ha permesso agli Stati Uniti di riconciliarsi con Cuba (glielo hanno riconosciuto sia il presidente Barack Obama sia quello cubano Raul Castro). Ha impedito di trasformare la sciagurata guerra di Siria in una tragedia immane. Ha tenuti vivi i diritti dei popoli, a cominciare da quello palestinese. Ha visitato Gerusalemme assieme a due suoi cari amici argentini, un rabbino e un imam. Lo accusano di sottostimare il pericolo islamista. Al contrario, penso che dobbiamo a lui se un conflitto di pochi fanatici, sbandati e utili idioti di un mondo senza regole, non si sia trasformato in un disastro epocale.
Capite ora perché Francesco, quest'uomo semplice e coraggioso, non vive nel suo palazzo ma in 
Santa Marta, tra altri ospiti e sacerdoti? Glielo hanno chiesto e ha risposto, disarmante: «Per ragioni psichiatriche». Capite perché a volte dobbiamo tremare quando il Papa si concede generosamente all'abbraccio della folla? Mio zio era un missionario saveriano, cappellano militare degli alpini della luna, considerato un eroe perché, pur ferito, scelse di rinunciare al rimpatrio e di restare prigioniero con i suoi soldati, in Grecia. Andò a lavorare in Vaticano. Quando uscì il libro di David Jallop, "In nome di Dio", sulla morte di Papa Luciani, mi disse: «Beh, le fonti del lavoro mi sembrano molto accurate». Capite perché ho dubitato, sin dall'inizio, sulla verità della cosiddetta pista bulgara, nel tentativo di ammazzare Papa Giovanni Paolo II? Fu grazie a un direttore del Corriere, Alberto Cavallari, che aveva intervistato Paolo VI e aveva importantissime aderenze in Vaticano?
Francesco dimostra di non avere alcun timore per la sua vita. Pensate che, dopo essere stato presente, sul Mar Morto, nel luogo dove fu battezzato Gesù dal Battista, vedendo, alla fine della cerimonia, che tutti i presenti, profughi siriani, volevano soffocarlo di affetto, mi avvicinai, gli dissi: «Padre 
santo, attento». Lui rispose con un sorriso. Orientai il mio I-Pad per un problematico selfie. Francesco, mi perdoni, non è venuto niente. Forse ho sbagliato tasto. 


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