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20 Setembre 2016

Il grido di dolore dell'Africa: «Aiuti ma anche pari dignità»

Il Meeting di Assisi. Un continente dai tanti paradossi: è il più giovane ma anche il più povero e il più colpito dai cambiamenti climatici

 
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È il continente delle sfide e dei paradossi. È il continente più giovane, perché è in Africa che si concentra un terzo di tutta la popolazione giovane del pianeta. Sta arrivando a contare un miliardo di persone. Ma è anche quello dove il 40% degli abitanti, cioè la cifra astronomica di 640 milioni di persone, non ha accesso all'energia elettrica, dove il rendimento agricolo è il più basso del mondo, malgrado molti progressi nell'irrigazione e nelle tecniche agricole, dove l'80% della popolazione lavora nei campi, ma non ha da mangiare ed è costretta a importare riso e latte.
Al meeting di Sant'Egidio ieri ha fatto impetuosamente irruzione l'Africa. E nell'analisi dell'economia delle diseguaglianze ne sono emersi i mali e le potenzialità in un intreccio drammatico che richiede un orientamento strategico nuovo. Spiega il presidente dell'Assemblea nazionale sudafricana la signora Beleka Mbete: «L'Africa ha bisogno di industrie, di investimento e non solo di aiuti allo sviluppo. Dobbiamo riuscire a garantire valore aggiunto alle materie prime, trasformarle e non solo esportarle, altrimenti non riusciremo mai a ridurre la nostra dipendenza». Non è il solito grido di aiuto.
Ieri l'Africa ad Assisi non ha chiesto assistenza, ma ha chiesto di essere considerata un continente alla pari, ammettendo i propri errori, ma al tempo stesso denunciando i rapporti di potere asimmetrici su scala globale che dividono il mondo e infilano gli africani sempre in fondo alla fila. L'Africa ha bisogno di amici, più che di zelanti funzionari che misurano il dolore e ne propongano rimedi. La Comunità di Sant'Egidio ha una lunga storia di collaborazione e di amicizia con l'Africa dalla mediazione con successo della guerra in Mozambico ormai venticinque anni fa al Progetto Dream che continua e salvare dall'Aids mamme e bambini, alle altre mediazioni per la pace in Algeria, in Costa d'Avorio, in Senegal per la guerra in Casamanche, in Guinea Conakry e nella Repubblica Centrafricana.
Ma se oggi le speranze per l'Africa di una vita migliore non sono più rarissime come nel passato il continente, come ha detto con una bella immagine Venance Konan, scrittore di successo in Costa D'Avorio, è ancora «un ramo spezzato nel bouquet della globalizzazione». Ha un piede nella globalizzazione, ma ne occupa il posto oscuro, quello della rapina dei ricchi, quello che trasforma i campi in culture da reddito e da speculazione, con la gomma, il caffè, il cacao e il cotone, sviluppate a scapito delle colture alimentari, quelle che invece fanno la differenza tra la vita e la morte. Il secondo piede che entra nella globalizzazione dovrebbe invece costituire un movimento virtuoso, che ha che a fare con l'istruzione, la democrazia, i diritti, il rispetto dell'ambiente. Ma non è così e in Africa va in scena il più colossale dei paradossi. È il continente che inquina di meno, il più piccolo inquinatore mondiale, ma è quello che con più difficoltà riesce a far fronte alle conseguenze drammatiche dei cambiamenti climatici. Così le stagioni delle piogge provocano ormai inondazioni spaventose in un contrappunto tragico con la siccità.
Sono gli stravolgimenti degli ecosistemi soprattutto nella misura delle piogge ad avere effetti pesanti sui raccolti e la produttività del bestiame, che provocano alla fine le migrazioni di popolazioni intere, non in grado di far fronte alle catastrofi. Per questo la sfida più importante nella seconda tappa della globalizzazione resta quella dell'istruzione, che sola può permette il controllo e lo sviluppo delle proprie risorse, con l'aumento non solo delle conoscenze tecniche,ma anche della coscienza critica, in modo che gli africani possano controllare le emozioni della globalizzazione e non finirne preda e quindi umiliati.


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