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5 Septiembre 2017

Migranti. Non sanno di potersi curare anche se sono senza permesso di soggiorno. Ed evitano ospedali e medici. Non vaccinano i bambini. Eppure una tessera sanitaria li mette al riparo. Storia di una donna nigeriana e di un progetto che la salva

Paulina, che ha paura del pronto soccorso

È più probabile che siamo noi a contagiare gli Immigrati perché sono fragili e non sono vaccinati

 
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Hanno paura e dal medico non ci vanno. Se non quando c'è un'emergenza come una minaccia d'aborto o una febbre violenta che non scende da giorni. Perché non sanno che avrebbero comunque diritto alle cure mediche indipendentemente dai permessi di soggiorno. «Noi garantiamo assistenza sanitaria a tutti i migranti, anche quando ci sono delle irregolarità, perché così si tutela la salute dell'intera collettività», chiarisce Concetta Mirisola, direttrice generale dell'Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti. Che aggiunge: «Abbiamo realizzato la tessera sanitaria elettronica per i migranti e un percorso di presa in carico del paziente migrante in modo da poter monitorare il loro stato di salute». Ma le donne hanno paura. Non lo sanno. Oppure le regole dei nostri ospedali vanno in rotta di collisione con le loro culture. Ad esempio, a volte basta mettere loro a disposizione una ginecologa donna per poter abbattere questi muri.
Paulina è una delle 18.594 donne che l'anno scorso, stando ai dati del ministero degli Interni, hanno richiesto asilo nel nostro paese. Paulina ha 34 anni, è arrivata in Italia dalla Nigeria dove faceva l'insegnante e ci racconta la sua storia a margine della presentazione del progetto della Comunità di Sant'Egidio "Madri e Figli rifugiati: dall'accoglienza all'inclusione". Lei ha attraversato il deserto a piedi, per 5 giorni, senza né cibo né acqua. «Sono in Italia da 1 anno e 8 mesi - inizia - in Nigeria ho lasciato mia figlia che oggi ha 14 anni. Non la vedo da quando ne aveva solo 6, da quando mio marito e sua madre mi hanno cacciato da casa». Così Paulina si è rifugiata nel villaggio dove viveva con suo padre che era il capo della comunità. Fino a quando un mattino sono arrivati e lo hanno ucciso.

A quel punto la donna scappa unendosi ad un gruppo che andava verso il fiume Niger. «Ho camminato senza meta. Aspettavo solo il momento di morire, guardando gli avvoltoi che ci accompagnavano lungo il cammino volando sopra le nostre teste». Poi insieme ad altri trova un lavoro in cambio di cibo e di acqua. Al momento per lei è stata una salvezza ma ben presto si è resa conto di essere una schiava. «Non mi pagavano. Non potevo pregare. Non potevo uscire. Mi potevo lavare solo una volta alla settimana e sempre senza sapone. Avevo paura di prendermi qualche brutta malattia», confida.
Finalmente un giorno arriva la possibilità di fuggire via e salire su un barcone alla volta dell'Italia. «Eravamo tantissimi, uno stretto all'altro. Di tutte le provenienze ed eravamo tutti terrorizzati. La barca era in balia del mare e c'erano delle onde enormi perché il mare si ingrossava sempre di più. Non potrò mai dimenticare le grida. Poi la barca ha iniziato a cedere, ad imbarcare acqua. Ho visto una donna e il suo bambino morire annegati senza poter fare nulla. Finalmente sono arrivati i soccorsi italiani e siamo sbarcati a Lampedusa». Dopo quattro giorni, è stata portata a Roma al Centro di identificazione ed espulsione ( Cie) di Ponte Galeria dove è rimasta per alcune settimane e dove ha incontrato Monica, un'insegnante della Comunità di Sant'Egidio che l'ha aiutata ad uscire da lì.
Oggi Paulina fa due lavori: si occupa delle pulizie a casa di una famiglia e fa la sarta perché alla Comunità di Sant'Egidio ha frequentato un corso di sartoria. La donna ha dovuto affrontare una forma di discriminazione di cui sono spesso vittime tutti i migranti: la paura che possano essere portatori di malattie. «In realtà -chiarisce Daniela Pompei, responsabile della Comunità di Sant'Egidio per i servizi agli immigrati-non c'è una correlazione tra immigrazione e malattie infettive e anzi è più probabile che siano loro a contagiarsi da noi perché non sono vaccinati e sono fragili». L'unico modo per aiutare queste donne anche a combattere le malattie è. quello di renderle più consapevoli e sicure di se stesse. «Ora vado a scuola di italiano ed ho iniziato a vincere le mie paure. Mi sono fatta visitare e sto iniziando a capire quanto sia importante occuparsi anche della salute".
Paulina è una delle 400 donne che riceveranno un aiuto grazie al progetto della Comunità di Sant'Egidio £Madri e Figli rifugiati: dall'accoglienza all'inclusione" reso possibile da Msd Italia. Attraverso questo progetto 400 donne saranno aiutate in 400 modi differenti, perché ognuna di loro ha la sua storia. Spiega Daniela Pompei: «L'aiuto è su molti fronti: lingua, assistenza legale, kit di sussistenza per i bambini, integrazione a scuola, tessere telefoniche per mettersi in contatto con le famiglie» L'obiettivo è rendere queste donne autonome. Per questo sono previsti corsi di economia domestica e di assistenza agli anziani e ai disabili in modo che possano trovarsi un lavoro. Le attività si terranno dentro la struttura del San Gallicano a Trastevere nel centro di Roma. Dove avranno luogo anche le "Lezioni di prevenzione". «Abbiamo stretto un protocollo d'intesa con l'Asl RM1 - continua Pompei - in modo che i migranti possano fare screening di prevenzione dei tumori.
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