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11 Septiembre 2012

Da Sarajevo la forza del dialogo contro le armi

 
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La scelta della città di Sarajevo per il Meeting dialogo e religioni organizzato quest`anno dalla Comunità di sant`Egidio non è certo casuale.

«Quella città è una ferita per l`Europa, ed è un luogo di convivenza dove si gioca la sfida del futuro» spiega Mario Marazziti, portavoce della Comunità, impegnato nei numerosissimi dibattiti organizzati nella città bosniaca. È una storia dolorosa da ricordare? «È stato un paradigma della convivenza di religioni ed etnie diverse. Vi è stata la guerra sino agli accordi di Dayton e poi un`altra guerra silenziosa che è continuata in questi anni. Ma venire a Sarajevo non è un viaggio nel passato. È entrare nei segni dell`ultimo conflitto di Europa per cercare il modo di costruire il futuro. Perché Sarajevo diventa il paradigma di tutte le città del mondo che hanno il problema della complessità e della convivenza». Una sfida dal cuore del vecchio continente proprio ora che l`Europa solidale pare essere messa in discussione? «Paradossalmente l`Europa solidale messa in discussione dalle tensioni centrifughe legate alle difficoltà della crisi, è un problema da ricchi. Credo che l`Europa debba rapidamente passare da questo lusso capriccioso, anche se radicato in alcune difficoltà economiche attuali, ad una fase nuova». Al dialogo non si può rinunciare? «È quello che è successo a Sarajevo. Per la prima volta dalla fine della guerra conclusasi con gli accordi di Dayton le quattro comunità religiose - ortodossi, musulmani, cattolici ed ebrei - con la comunità di sant`Egidio si sono ritrovate assieme. Con il patriarca ortodosso serbo Irinej che partecipa alla liturgia presieduta dal cardinale Puljic e lascia un
messaggio significativo: "I troppi e lunghi secoli di divisione ci impongono di essere vicini" e aggiunge "Non ci sia mai una Sarajevo senza cristiani". Perché è questa pluralità che garantisce anche le altre minoranze e maggioranze. Non era mai successo. Questi sono fatti che rendono possibile passare dall`idea della convivenza come fatto del passato a costruzione stabile del presente e del futuro. Ma diventa un problema quando le leadership politiche sono bloccate dai nazionalismi».

Una preoccupazione espressa anche al vostro Meeting. «In contro tendenza con la dimenticanza del mondo verso la Bosnia e Sarajevo, il primo ministro italiano Mario Monti e il presidente del Consiglio d`Europa, van Rompuy, e quindi l`Europa, sono venuti a Sarajevo. È stata una scelta politica importante che apre uno scenario e offre un respiro alla costruzione di soluzioni che vadano oltre Dayton». Come coniugare «l`amore dei poveri» con «l`imperativo del dialogo» che pure richiamate? «Nella città bosniaca i segni delle ferite sono infissi in ogni muro. Lo sono ancora di più nelle coscienze e nei cuori. Non ci sono più poveri dei poveri che i figli della guerra. Da qui diventano importanti tutte le riflessioni su vecchie e nuove povertà in Europa, su come non dimenticare l`Africa, sulla crescita della violenza nelle grandi città latino americane e asiatiche. Perché il dialogo diventa la lingua del futuro. Siamo in un sistema abbastanza bloccato nel linguaggio politico, nei modelli di convivenza, sullo scacchiere internazionale. Pensiamo anche alla crisi in Medio Oriente, al rischio di una quasi guerra fredda che si gioca attorno alla Siria, all`incertezza attorno agli sviluppi della Primavera araba.

Il dialogo è la chiave per un mondo che sta soffrendo nel trovare le strade per una globalizzazione della solidarietà che si accompagni ad un minimo di giustizia sociale». Nel suo messaggio al vostro Meeting Benedetto XVI richiamava anche il valore del dialogo come insegnamento del Concilio Vaticano II, ricordando la giornata di preghiera di Assisi. È il vostro impegno. Quali frutti ha dato? «Per gli scettici il dialogo è un gioco da bambini. Le cose vere sarebbero le guerre, gli scontri, la voce grossa, i muscoli. In realtà negli ultimi venti anni la via dei muscoli è stata fallimentare. L`Iraq, le guerre del Golfo, l`Afghanistan ed ora la Siria dimostrano non solo quanto sia difficile esportare la democrazia, ma come le ansie di maggiore giustizia e dignità con le armi si difendano male, perché spappolano le società. Se, invece, si lavora per l`integrazione e la convivenza tra i popoli che include anche il dialogo culturale, i bisogni spirituali e le ferite da sanare, si integra il linguaggio politico. Lo si rende meno asfittico. Gli si dà una visione.

Non è già un grande risultato? Si vede così come il dialogo sia una necessità storica. Questo crea fatti. Non si improvvisa, ad esempio, che per la prima volta dopo oltre vent`anni a Sarajevo si ritrovino assieme le quattro comunità religiose. È così che il Concilio Vaticano II riacquista forza e mostra come dopo 50 anni i cristiani possano essere ponte in situazioni difficili. Penso in particolare al Medio Oriente, dove i cristiani sono una risorsa a cui il mondo non può rinunciare. Altrimenti diventa più facile la polarizzazione. Vi è grande attesa per il viaggio del Papa in Libano e forte la domanda di una visione diversa: le armi non sono l`unica soluzione».


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