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8 Aprile 2013

La testimonianza della zingara Rita Prigmore, vittima delle atroci sperimentazioni naziste: Perché vi racconto la mia storia

«Ricordate ciò che è accaduto per costruire il vostro futuro» ripete agli studenti

 
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La vita di Rita cambiò improvvisamente, una sera qualsiasi, mentre guidava la sua auto in una stradina nello Stato di Washington. Un forte mal di testa, l'improvvisa perdita dei sensi, giusto il tempo di accendere le luci di emergenza e poi lo scontro contro un palo della luce.

All'ospedale i medici scrutano le lastre e iniziano a fare domande su quelle cicatrici antiche sulle tempie: una ferita? un intervento chirurgico? Rita arriva a casa, chiama sua madre in Germania e in un paio di giorni l'anziana donna è al suo fianco, le stringe la mano e le racconta tutta la storia dolorosa della sua prima infanzia nelle mani dei medici nazisti.

La vicenda di Rita Prigmore, zingara di etnia sinti, tedesca, prelevata appena venuta alla luce insieme alla gemella Rolanda e sottoposta a sperimentazioni mediche dall'équipe del dottor Heyde, è una storia dolorosa che lei stessa ha scoperto lentamente, togliendo solo dopo anni il velo all'orrore che ha distrutto la sua famiglia e maturando una nuova consapevolezza del ruolo prezioso del testimone.

Dopo essersi ricostruita una vita negli Stati Uniti, Rita Prigmore è tornata in Europa per cercare di ottenere un risarcimento dalle autorità tedesche e, dopo la morte della madre, oggi spende le sue energie per incontrare i giovani e raccontare loro del Porrajmos, l'Olocausto dimenticato del popolo zingaro.

In questo periodo Rita Prigmore è in Italia, per una serie di incontri organizzati dalla Comunità di Sant'Egidio - in prima linea nel sostegno a rom e sinti e nel ricordo delle vittime delle violenze naziste - che in pochi giorni l'hanno portata in giro per la Penisola per parlare ai ragazzi delle scuole, nei campi sinti, nei luoghi della cultura. Una delle tappe è stata Genova, dove, nella sala del Minor Consiglio di Palazzo Ducale, Rita Prigmore - introdotta da Andrea Chiappori, responsabile locale di Sant'Egidio - ha portato la sua testimonianza e ha dialogato con Ariel Dello Strologo, rappresentante del Centro Primo Levi e vicepresidente della Comunità ebraica genovese, Luca Borzani, presidente della Fondazione per la Cultura Palazzo Ducale, e Pino Pino Petruzzclli, attore, regista e scrittore appassionato di cultura rom.

Circondata da decine di ragazzi, dopo la fine della conferenza Rita Prigmore si è appoggiata al braccio della traduttrice, mentre i suoi occhi chiari saettavano attorno. Fissando alcuni giovani, ha scandito le parole con solennità. «Voi potete costruire il vostro Paese, potete far sì che nessuno debba più essere vittima della violenza razzista: guardate gli altri negli occhi e non dimenticate che in ciascuno c'è un essere umano». Scorrendo tra le mani le foto e i ritagli di giornale, ha spiegato: «ormai io vivo per questo».

Rita Prigmore ha raccontato le sterilizzazioni, le deportazioni, il genocidio del popolo zingaro, ma soprattutto la storia personale  sua e della piccola gemella Rolanda, morta a sole sei settimane sotto gli strumenti dei medici nazisti. «Nel 1942, quando la quasi totalità degli ebrei tedeschi era già stata deportata, la sorte degli zingari non era ancora chiara (rom e sinti erano considerati ariani dalla scienza razzista), tuttavia i nazisti volevano evitare che procreassero: per questo su di loro vennero applicate le leggi per prevenire la riproduzione delle persone affette da malattie genetiche e così fu pianificata la sterilizzazione di tutti gli zingari in Germania».

Rita nacque nel 1943 a Wiirzburg, nella Bassa Franconia, in una famiglia numerosa e inserita nella società: i nonni costruivano cesti per i viticoltori, il padre suonava il violino in una banda musicale molto affermata, la madre, Theresia, di giorno lavorava in una fabbrica di dolci, la sera era cantante, attrice e ballerina in uno dei teatri più prestigiosi della città. «Niente faceva pensare a quello che sarebbe successo - spiega - perché molti sinti erano ben inseriti nella società: mio zio Kurt, il fratello maggiore di mia madre, per esempio, era militare e faceva parte della squadra di motociclisti a cui spesso era chiesto di scortare il Fiihrer nei suoi viaggi. Per le sue qualità di soldato avevano deciso di promuoverlo, e fu proprio nel corso delle ricerche sulla sua storia familiare in occasione di questa promozione che scoprirono che i suoi genitori erano zingari: da Lione, dove si trovava, fu subito richiamato a Wiirzburg e venne sterilizzato. Aveva appena 25 anni». 

Prima di essere sottoposta alla sterilizzazione, tuttavia, la madre di Rita riuscì a rimanere incinta: la Gestapo la convocò immediatamente per procedere all'aborto, ma quando dagli esami risultò evidente che la donna fosse incinta di due gemelle, i nazisti - che avevano un grande interesse per gli esperimenti sui gemelli, soprattutto se zingari - le posero un ultimatum: se non avesse accettato di lasciare le sue bambine ai medici del Reich, sarebbe stata costretta ad abortire e condotta immediatamente ad Auschwitz. «Mia sorella Rolanda e io siamo  nate il 3 marzo 1943 - prosegue Rita - e mia madre mi raccontò che attorno a lei c'erano molti medici in uniforme ad assistere al parto. Ci presero immediatamente e a mia madre non fu possibile vederci per i successivi cinque giorni». Erano settimane drammatiche per i sinti tedeschi: nell'aprile di quell'anno la quasi totalità degli zingari rimasti nei territori controllati dalla Germania fu deportata ad Auschwitz. A Winzburg operava l'équipe del dottor Heyde, seguace di Mengele, specializzato negli esperimenti sui gemelli e in seguito capo del programma di eutanasia di Stato. «Mia madre era spaventata e non riuscì a resistere a lungo in quella situazione. Così un giorno entrò nell'ospedale dove eravamo rinchiuse e, dopo molte insistenze, riuscì a convincere un'infermiera che le mostrò me. 

Quando mia madre insistette per vedere anche mia sorella, l'infermiera la portò in bagno e le indicò Rolanda, in una vasca  da bagno,con indosso una maglietta e la testa fasciata. Era morta: i medici le avevano fatto delle iniezioni dì inchiostro negli occhi per tentare di cambiarle il colore». In preda alla disperazione, Theresia prese la figlia ancora in vita e corse alla cappella di Santa Rita per far battezzare la bambina in quella condizione di emergenza: fu per questo che alla piccola venne dato il nome della santa patrona delle cause impossibili.  «Due giorni dopo a casa mia arrivarono le Ss e mi prelevarono: per un anno mia madre non ebbe più notizie di me». La storia di Rita rimase naturalmente segnata da quella vicenda, ma fu solo dopo molti anni - in seguito a quell'incidente d'auto - che sua madre si decise a raccontarle qualcosa.

Sono solo pochi anni che Rita Prigmore ha deciso di tornare in Europa: per chiedere giustizia e risarcimenti per ciò che ha subito, ma soprattutto per raccontare a tutti ciò che ha vissuto la sua gente. «E poi perché, anche oggi bisogna vigilare: io ho subito molta ostilità in quanto zingara e tanti, troppi, sono ancora maltrattati per la loro presunta diversità ». Poi si è rivolta ai ragazzi, quasi scrutando gli occhi di ognuno: «non conta il colore della pelle, o se una persona è disabile o immigrata, l'unica cosa che conta è il cuore».


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