C’è una verità elementare che tocca sempre riscoprire e riaffermare: il lavoro dà dignità e crea socialità, oltre che sostegno materiale. Una verità tangibile nel cuore di Trastevere, alla Trattoria degli Amici, felice esperienza promossa dalla Comunità di Sant’Egidio. Dove normodotati e persone con disabilità varie gestiscono all’unisono cucina, ristorazione, relazioni. Dove le pareti di una bella struttura antica sono tappezzate con opere artistiche di chi comunemente è considerato inferiore. E dove sembra che i marginali interroghino la nostra presunzione: sorridendo, invitandoci a un rapporto finalmente orizzontale, esterno alle superficiali convenzioni di maniera. Giacché quel che noi pensiamo di non essere è soltanto una quota celata e smarrita della nostra identità globale, e l’altro da noi è una nostra frazione proiettata fuori.
BUROCRAZIA CLINICA
Ne parlo con un signore gentile che mostra al cronista come si vince osando l’impossibile. Vittorio Scelzo ha 42 anni, moglie, due bambini, faccia gioviale; fa l’impiegato e collabora volontariamente all’intrapresa ristoratrice «per contribuire alla costruzione di una società a misura d’uomo… una nuova cultura della disabilità», come recita la brochure della cooperativa. I cui utili sono interamente destinati all’incremento e alla diffusione del progetto originario, essendo l’occupazione lavorativa «il disagio sociale più grave lamentato dai disabili stessi» (indagine Censis), che vengono colpiti dalla sua mancanza tre-quattro volte più dei normalmente abili. L’ottima legge n. 68 del 1999 sull’inserimento occupazionale dei disabili ha subito un brusco arresto aggravato dalla crisi in atto e dalla burocrazia clinica.
L’ASCOLTO, L’ARTE, IL LAVORO
L’origine della trattoria è nel 1991 con Pane, Amore e Fantasia, una paninoteca aperta da quattro disabili mentali -Flavia, Luciano, Maurizio, Natalina- coadiuvati da amici della Comunità ed organizzati nella coop «Pulcinella-Lavoro»: l’originalità non consiste nella (pur meritoria) occupazione per svantaggiati, bensì nel fatto che essi siano fulcro e maggioranza dell’esperienza imprenditoriale. L’iniziativa ha successo e nel 1998 -grazie anche a una Giunta comunale ricettiva- s’inaugura la trattoria nella sede attuale, con quattro disabili su cinque in cucina e nove camerieri su tredici in sala, a reinterpretare la tradizione culinaria romanesca. «L’abbiamo concepita ascoltando i disabili (Tamara e Adriana le prime), persone chiuse dentro casa, abbandonate… negli anni Ottanta abbiamo iniziato aprendo laboratori d’arte, corsi di pittura… ma ci siamo presto resi conto che il problema più grosso è il lavoro». Senza il lavoro ogni persona ha un’idea di sé devastante, pensa di valere meno, perde fiducia. «Non poter lavorare e non sposarsi sono le questioni più evidenti che marcano la differenza… Il lavoro è un problema chiave, quello che ti fa sentire utile, ti apre al mondo invece di chiuderti in qualche centro diurno». Il lavoro dà autonomia, evita umiliazioni, aumenta la stima di sé: «il disabile non è uno stupido, una persona priva di sentimento e visione del mondo; la disabilità non è un vuoto a perdere, non è assenza di pensiero ma difficoltà a esprimerlo, occorre trovare le strade per farlo».
IL MARCHIO DELLA DIVERSITÀ
Nel campo dell’istruzione il Belpaese è all’avanguardia inclusiva fra le legislazioni del Pianeta: «possiamo esserne orgogliosi, è l’unico sistema educativo che accoglie tutti; c’è sì il problema del sostegno, dei fondi che non bastano mai… però l’Italia è la terra di Montessori, Basaglia, don Milani…, attenzione particolare a ciascuno e tradizione pedagogica peculiare, siamo tuttora un passo avanti rispetto al resto del mondo nell’inclusione scolastica, per noi è ormai normale vedere bambini con disabilità nelle scuole, uno standard recepito nel 2006 dalla Convenzione Onu sui diritti dei disabili, a cui gli altri Paesi vanno adeguandosi. Ciò significa che nelle nostre scuole i bambini crescono assieme, hanno socialità, fanno sport e teatro… Poi ci si scontra col mondo del lavoro ed è grande delusione, frustrazione radicale, il muro: dall’inclusione all’esclusione».
Sottrarre spazio alla relazionalità sociale vuol dire sottrarre libertà, assaporare il gusto della parità e vederselo sottrarre vuol dire reclusione. Un delitto ancora più grave quando le vittime hanno spirito specialmente delicato e sensibile. Senza dubbio i movimenti d’emancipazione culturale hanno ottenuto conquiste importanti, come l’obbligo d’assunzione al 7% del personale per aziende che abbiano oltre 15 dipendenti, comprese le amministrazioni pubbliche: «ma non ha funzionato, c’è chi preferisce pagare la multa e non i costi fiscali, così tu disabile prima hai vissuto nella normalità, poi il mondo s’accorge che sei diverso, comincia a rifiutarti, gli amici non ti frequentano più, vorresti stare cogli altri ma ti rinchiudono in un centro». È il labeling, l’etichettamento, il marchio della diversità.
GINA E MAURIZIO
«Prendi Maurizio che la diagnosi definisce oligofrenico, cioè uno con poco cervello, un ritardato mentale pericoloso a sé e agli altri, perciò incapace di lavorare… insomma un blocco mentale e giuridico per un disabile in cerca d’occupazione, soprattutto se bisognoso. Bene: Maurizio lavora con noi dall’inizio, ha un tratto umano molto forte, accogliente, fa il cameriere (non lavora certo all’affettatrice, ognuno opera secondo le sue specificità) e riconosce un cliente a un anno di distanza, ne rammenta comportamento, vino preferito, pietanze scelte…
Ognuno qui ha gran voglia di partecipare, è curato, attento, preciso, non guarda smanioso l’ora in cui finisce il suo turno come Fantozzi nei film, entra in empatia coi clienti, i quali notano la sua gratificazione, sintonizzano con l’ambiente, stabiliscono un rapporto amicale con la trattoria». La quale gode di un apprezzamento medio a quattro stelle, ha retto la crisi e oggi apre anche a pranzo, si è consolidata senza l’ossessione di farsi holding.
Tuttavia fungendo da battistrada per iniziative simili fiorite autonomamente nel vitale universo della disabilità (con associazioni attive non solo nel food) e prestandosi a corsi di formazione per onesti emulatori, o semplicemente per altri ristoratori (tra essi la celebre Cristina Bowerman) con mente aperta e non tarlata dall’unico scopo del massimo lucro monetario: a Roma è sorta La Locanda dei Girasoli, nel resto d’Italia i locali del genere sparsi dal Nord al Sud sono una quarantina, con denominazioni talvolta irridenti, tipo la NCO (Nuova Cucina Organizzata) di Casal di Principe ispirata dai ragazzi del sacerdote Peppe Diana assassinato dai camorristi. E la splendente contaminazione invade l’Europa col Coffeebar Amici aperto ad Anversa. Piccole imprese che aprono orizzonti prendendo a schiaffi l’idea del vivere penitenziale.
Al momento dei saluti, gli occhi di Gina (esclusa fra gli esclusi, clinicamente disabile intellettiva al 75%) che dall’inizio mi seguivano titubanti escono finalmente dalla cucina: le nostre mani restano a lungo intrecciate, emozionando intense intese silenti.
Damiano Tavoliere
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