Viceministro degli Affari Esteri, Italia
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Mi sono chiesto quali siano le sfide dell'Africa globale, globalizzata, oggi. Sono molteplici e dovevo sceglierne alcune.
C'è certamente una sfida politica: la democratizzazione, il passaggio dalle cleptocrazie e poi dalle democrature alla vera democrazia rappresentativa con checks and balances. Stati che devono rafforzarsi come quadro di sicurezza sociale e dei diritti per i cittadini, e non come potere impaurito del popolo.
C'è la sfida economica: in poche parole passare dall'essere un giacimento a cielo aperto, al controllo delle proprie risorse. Significa diventare produttori di qualcosa: cosa? Agricoltura può essere il mezzo per entrare nella globalizzazione così come l'Asia vi è entrata con la manifattura?
C'è la sfida della cultura: educazione e media non solo per aumentare la conoscenza tecnica degli africani ma soprattutto la loro coscienza critica, in modo che non siano facile preda alle “emozioni” della globalizzazione di cui parla Moisi nel suo Geopolitiques des émotions (paura, speranza, umiliazione) ma divengano cittadini.
C'è la sfida della chiesa, delle chiese e delle religioni: come non farsi prendere dagli estremismi autoreferenziali -in genere dettati dalla paura degli altri- , chiudersi e diventare un'arma piuttosto che predicare la pace e la convivenza.
Insomma le sfide sono tante per questo continente di oltre 1 miliardo di persone.
Tra tutte, ho scelto di parlarvi brevemente di due sfide che mi paiono urgenti, e che si legano alle altre: i giovani e le città.
Com'è noto la maggioranza dai giovani vive nei paesi poveri ed è povera e l'Africa è un continente di giovani. Cosa fa questa maggioranza di adolescenti e giovani? Guardiamoli in faccia per chiederci innanzi tutto chi sono.
Il controllo degli adulti, una volta asfissiante, vacilla: i giovani africani sono in media più indipendenti e liberi dei loro parenti. Va detto subito che ciò non vale ancora tanto per le ragazze la cui esistenza è ancora condizionata dalle famiglie e dagli “anziani”, in tutte le scelte della vita. All’età di vent’anni oltre la metà delle ragazze africane è già madre, ma non per “errore”, come capita altrove, ma perché fare figli è considerato dalle famiglie un dovere e una forma di investimento. D'altronde il 40% delle famiglie africane è retto da una donna sola.
Ma per i maschi è diverso. Lasciano i villaggi per le città, cercano di emigrare o si lasciano attrarre da avventure violente e di ribellione. La maggioranza si accalca nelle bindonvilles e nei quartieri delle grandi città in cerca di fortuna. Globalmente la vita del giovane africano ormai largamente urbanizzato è condizionata dalla fragilità della famiglia e dalla fine dei sistemi tradizionali di protezione (che tuttavia restano autoritari), dalla mancanza di lavoro, dal rischio di ammalarsi, dal desiderio di emigrare e dal dispotismo delle istituzioni. La stragrande maggioranza è convinta che emigrare per assicurasi un futuro migliore sia un diritto inalienabile. Due terzi dicono che lo faranno certamente appena organizzati; uno su sette dichiara che per raggiungere un paese più ricco metterebbe volentieri a rischio la propria vita. L’HIV/AIDS è la prima causa di morte tra i giovani africani (soprattutto ragazze), seguito dalla violenza.
C'è anche un cambiamento antropologico: la globalizzazione ha cambiato il quadro di riferimento. Al posto della vecchia cultura solidale, almeno a parole, una cultura competitiva e materialistica si sta affermando fortemente tra i giovani urbanizzati. La spinta a ricercare il proprio interesse individuale ad ogni costo è molto forte. L'impulso ad emigrare va anche letta come una conseguenza di questa situazione, non solo perché è caduta ogni speranza nel futuro del proprio paese.
C'è un paradosso: proprio mentre stanno perdendo la loro tradizionale autorità, gli adulti pressano i giovani perché facciano fortuna, perché riescano. L'incitamento al “riuscire” è molto forte. Sui giovani si scarica così il peso e la “fretta” di riuscire a carpire qualche briciola dello sviluppo globale. E’ il senso pessimistico della nota lettera di Yaguine e Fodé, due adolescenti guineani morti nel carrello di atterraggio di un aereo nel tentativo di emigrare. Sentendosi “maledetti” nella propria terra, i giovani africani, in genere più istruiti dei loro genitori, mettono in atto ogni possibile espediente per farcela. La vita è violenta e ogni cosa va conquistata in un ambiente in cui l’insicurezza rende tutto molto competitivo. I giovani imparano ad essere molto aggressivi. Tale competitività supera i restanti legami familiari e di amicizia e può far calare il livello etico generale: tutto è messo in vendita, niente è gratuito. Per il giovane africano ogni opportunità individuale che si presenta (non importa se legale o etica) è buona per riuscire, per uscirne.
Il mito dell’africano religioso e legato a famiglie allargate, svanisce davanti alla penetrazione traumatica dei valori della concorrenza globale, che nelle grandi città africane assume spesso i contorni della lotta per la sopravvivenza e contagia soprattutto i giovani. Il “si salvi chi può” e il “ci si salva da sé” rappresentano oggi una mentalità continuamente predicata, gridata ad ogni angolo ed ogni giorno. Se non ne sai cogliere le opportunità sei definito un perdente o un pazzo.
Proliferano per tali ragioni anche sette e chiese del risveglio che predicano la teologia della prosperità: per portare ordine nell’universo morale e materiale caotico dell'Africa, viene proposta una nuova autostima e nuovi modi di condotta davanti alla fine di quelli tradizionali. Si cerca di reinventare il passato, superando una storia africana fatta di tradizione e soggezione ma anche di solidarietà. La questione della salvezza individuale è legata alla demonizzazione del passato e del diverso, ma soprattutto alla riuscita sociale, al successo e alla prosperità individuale. All'interno della nuova classe media africana molti sono gli adepti a tale versione del cristianesimo pentecostale.
In Africa, come altrove, la globalizzazione provoca dunque una rivoluzione antropologica. A differenza degli adulti, i giovani del continente sono più indipendenti, intraprendenti, più pronti all’avventura e –di conseguenza- anche più soli. Sono i giovani delle bidonvilles africane, degli slums, di tutte le provenienze, senza alternative, senza diritti, senza famiglia, clan o etnia, allontanati dalla società che conta. Le vecchie generazioni africane pensavano (e pensano) che le cose si dovessero fare insieme, come tribù, etnia o almeno classe di età. L'unità africana fu il sogno di tale generazione ora invecchiata. Le delusioni prima, e la globalizzazione poi, hanno mutato questo orientamento: ora anche in Africa il primo posto è dato ai destini individuali. Se oggi gli adulti non si fidano più dei politici che li hanno delusi, i giovani africani non si fidano più della politica stessa, nemmeno dei sogni incompiuti dei loro genitori. I sogni svaniti del riscatto del mondo nero, il valore di “ubuntu”: “io sono perché noi siamo” o il Soleil des indépendances, le altre ideologie panafricane: tutto un mondo ormai scomparso.
I giovani africani non pensano ad avventure comuni, se non quelle che li vede risucchiati da qualche “signore della guerra”. Molti conflitti africani sono nati infatti a causa delle molte braccia giovani che non sono state prese a giornata. Ma in maggioranza i giovani africani cercano il benessere individuale, come tutti. Tra questi giovani è diminuito o si è laicizzato, l’amore per la propria terra: sanno che nella globalità devono cavarsela da soli.
Meglio informati dei loro genitori, spesso sono anche arrabbiati: uno dei motivi ricorrenti è la collera contro lo Stato e i “potenti” che, mentre mandano i loro figli nelle scuole all’estero, hanno abbandonato i giovani poveri lasciando andare in rovina le strutture scolastiche ed educative, non hanno pagato bene gli insegnanti rurali, non hanno costruito gli edifici scolastici né le strade per raggiungerli. La fine del sistema scolastico-educativo in Africa -dovuto alla corruzione ma anche all'aggiustamento strutturale- è all’origine di molte delusioni e rabbie. La stessa crisi dell’immagine dell’educatore, così autorevole nell’Africa indipendente, ad esempio, rappresenta la fine di un mito. E’ sufficiente leggere i romanzi della prima generazione di scrittori africani dopo l’indipendenza, per rendersi conto chi era l’“instituteur” o il “teacher”. Julius Nyerere, il padre della Tanzania, si fece chiamare mwalimu (maestro in lingua swahili), tutta la vita.
(alla sfida dei giovani è legata quella degli anziani, anziani soli soprattutto, visti come stregoni che rubano la vita ai giovani...)
La seconda sfida è quella della città. Si tratta di uno dei grandi temi globali: il convivere nella città. Dal 2009 la popolazione urbana mondiale è superiore a quella rurale, anche in Africa. La città è il luogo dove tutto si concentra, avviene, il luogo di ogni sfida. Olivier Mongin, studioso dei fenomeni sociali e urbani, la chiama “la città dei flussi”: flussi che travolgono i luoghi stessi e li cambiano. Se la globalizzazione è una rete in continuo movimento, le città sono i nodi, le intersezioni per cui transita o che evita. Città come “commutatori” dell'universo globale, più adatte degli Stati ad interpretarne gli umori e la direzione.
Una volta erano i luoghi a dare il senso allo spazio, in francese si usa anche l'espressione “l'esprit des lieux”, lo spirito che emana da un luogo e che ricopre chi c'è attorno o chi lo varca. Al contrario oggi tutto va nella direzione dello “spirito del tempo” incarnato dai flussi. Ciò mette in crisi la convivenza e il mix di culture e costumi: infatti non c’è più tempo per integrare e la città globale diviene una serie di rapide e successive giustapposizioni, con muri e barriere che dividono i quartieri, ghetti e collettività protette. La città dei flussi si riempie di luoghi che si assomigliano dovunque siano: la globalizzazione tenta in questa maniera un suo metodo di omologazione. Certe strade commerciali sono tutte uguali in qualunque continente, con gli stessi negozi e le stesse catene, un po' come negli aeroporti. Un modo per l'uomo globalizzato di “sentirsi a casa” dovunque. Ma sono uguali anche gli slums, le bidonvilles...
In questo tipo di città occorre saper gestire i flussi: “la vitalità della grande città -come scrive Marc Augé- è proporzionale ai flussi che vi entrano e ne escono”, flussi di essere umani, di idee, di merci, di informazioni... L'alternativa è quella di un “urbano senza città” come accade spesso nelle agglomerazioni odierne, antiche o moderne e ricche o povere che siano, quando si affievolisce il tessuto umano e civico che le regge e scompare la “vocazione” della città stessa.
Reincorporare le banlieues e le periferie, è uno dei grandi temi della politica della città oggi. Malgrado le loro deficienze strutturali rispetto alle città europee, tale è il problema anche per l'Africa: il tema infatti non dipende esclusivamente dalla povertà. Dal punto di vista culturale e politico si tratta di arrestare la deriva della stigmatizzazione, che in Europa era già stata superata alla fine dell'Ottocento, ma oggi si ripresenta intatta. E' quella delle “classi pericolose” com'era una volta definita la classe operaia prima dell'avvento del movimento operaio. Oggi pericolosi sono -come detto- i balieusards bollati come “stranieri”, clandestini, irregolari, nomadi o, peggio ancora, islamici. In Africa gli abitanti delle enormi periferie, degli slums. Pensate a Nairobi, a Kinshasa, a Durban...Molti slums portano nomi che sono già stigmatizzazioni. Termini che denotano una “non appartenenza” alla cultura, all'etnia, alla convivenza della maggioranza. L'esclusione di interi quartieri crea zone di “assenza di diritto”, anche urbane, come dei neo ghetti moderni. Provoca spostamenti di popolazione: non sono i poveri a spostarsi in genere, ma i ricchi che abbandonano certi quartieri e tendono a rifugiarsi in aree omogenee. I poveri, gli esclusi delle nostre città riempiono solo i vuoti lasciati dagli altri (gated communities).
Nella parte più povera del pianeta, come Africa o Medio Oriente, o nelle aree di conflitto, numerose città, o gran parte di esse, assumono un aspetto talvolta molto più inquietante. Queste città si estendono a vista d'occhio, ma in modo totalmente anarchico e senza che nemmeno la privatizzazione riesca a supplire in qualche modo. In tali agglomerazioni la sicurezza umana, quella delle persone e dei beni, è affidata all'iniziativa individuale. Gli esperti le chiamano “feral cities” (NORTON 2003), città ferali, letali. Sono il parallelo dei failed states, degli Stati falliti.
Le indicazioni per l'Africa -potremmo dire i segni dei tempi- che emergono dallo scenario globale dimostrano che la prima cosa da fare è connettere. La nostra società ha urgente necessità di connessioni reali. Riallacciare le relazioni sociali è un'opera che in questo momento pochi fanno: la politica è troppo polarizzata e quella che va per la maggiore -il populismo demagogico- non connette ma casomai divide.
Occorre trovare un'iniziativa di connessione tra mondi polarizzati che non si parlano, tra quartieri, tra centro e periferie, tra generazioni. Connettere significa integrare. Connettere è un metodo: significa un'opera di cultura politica diffusa, una rinnovata forma di “cultura popolare” che richiede tempo, perché connettere è un'occupazione paziente. Uscire dalla fretta e iniziare un processo paziente nelle nostre città, tra i giovani africani. Ma paziente non significa senza urgenza: una certa urgenza si è spenta in noi a causa della rassegnazione, della pigrizia indotta dal senso di impotenza.
Se l'accelerazione delle trasformazioni economiche e sociali mette in crisi la politica e in particolare la politica democratica rappresentativa, sappiamo anche che la globalizzazione non è in grado di occuparsi di chi resta indietro né di dedicarsi alle sorti dell'economia reale, lenta rispetto a quella veloce e mobile.
Invece di correre dietro alla globalizzazione e al ciclo mediatico, che tanto sarà sempre più veloce di lei, non bisogna temere di interessarsi alla società, alle classi medio-basse, che sono la base della democrazia. Dobbiamo uscire da un'impasse: quella di credere che se la globalizzazione ci ha per così dire “rubato” una parte dei nostri mestiere, non resti nulla da fare. C'è sempre molto da fare. Il progressivismo sociale dell'epoca delle ideologie, subordinava il cambiamento alla volontà politica, affermava la supremazia del politico che rivoluziona o riforma. Questo oggi è in crisi: la supermodernità globalizzante lascia, ad esempio, alla politica solo il ruolo di regolatrice e di assistenza, perché ai cambiamenti (tecnologici, produttivi, ambientali ecc) ci pensa lei stessa. Ma tanto basta alla politica per reagire e tornare autorevole: occuparsi del “resto” è pur sempre occuparsi della maggioranza, del 99%.
Per le democrazie ciò è molto più legittimante, piuttosto che andare alla ricerca di una legittimità alternativa, come quella securitaria, la più utilizzata fino ad ora. Sicurezza contro il terrorismo certo ma non solo. Trattare questioni di sicurezza è anche occuparsi dei giovani, del convivere, della città, di depauperamento culturale e della povertà, di violenza diffusa e di pace sociale, di immigrazione ed integrazione, insomma: della società in quanto tale.
Si tratta semplicemente di gestione della società. Se qualcosa non funziona va trovata una soluzione che non sia emergenziale. Ne va della qualità della nostra democrazia e della tenuta degli Stati. Il montare del risentimento sociale è la cosa più pericolosa per una democrazia, in Africa come altrove: la storia dimostra che quando i ceti medio-bassi non si sentono ascoltati né presi in considerazione, quando il timore del declassamento delle classi medie diviene forte, si rischiano avventure autoritarie o quantomeno populiste. Questo oggi riguarda le nuove classi medie africane, che temono di essere respinte indietro. Ciò le spinge a pensare solo a se stesse.
La globalizzazione attuale sta facendo nascere qualcosa di nuovo. Per ora sembra che solo i populismi siano in grado di intercettarlo: manifestazioni di ribellione, problema dei giovani, spostamenti di popolazione.
Se la globalizzazione è forte, essa non è onnipotente e in molti casi sbaglia o crea problemi che non sa risolvere. Soprattutto il tema della cultura, e della cultura politica, rimane una sfida sempre aperta della storia. Esiste un umanesimo democratico che va difeso e a cui vanno trovate nuove fondamenta, nuove parole d'ordine. La storia insegna che nulla può sostituirsi alla comune decisione umana, niente può sostituirsi alla convivenza civile e che quest'ultima ha bisogno di istituzioni che la rappresentino.
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