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20 Settembre 2016 08:30 | Teatro Metastasio

Intervento di Lucia Capuzzi



Lucia Capuzzi


Giornalista, Italia

La lezione americana per l’Europa

 

Aylan in Chiapas
Il 2 settembre 2015, le onde portarono sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, il corpo senza vita di Aylan, tre anni. Immortalato in un tragico scatto, il bimbo curdo è diventato il simbolo della crisi migratoria in atto in Europa. Dieci mesi dopo, il 20 luglio 2016, sul Web è circolato uno scatto drammaticamente simile. Un ragazzino di sette anni giaceva, morto, sul bagnasciuga. Stavolta non era stato il mare bensì l’Oceano Atlantico a trascinare il piccolo honduregno sulla battigia della Barra di San José, nella zona di Mazatán, in Chiapas. Poche ore prima, i pescatori avevano ritrovato nello stesso luogo altri due bambini annegati, entrambi di dieci anni, provenienti uno dall’Honduras e l’altra da El Salvador. La barca su cui viaggiavano, in compagnia di genitori o parenti, si era ribaltata e per i tre non c’era stato scampo: l’acqua li aveva inghiottiti. La stampa messicana li ha ribattezzati gli "Aylan centroamericani". La fiammata di indignazione virtuale è durata poche ore. Poi la storia è stata ingoiata dal vorace rullo compressore degli avvenimenti – e relativi orrori – mondiali.
Il caso mette in luce alcuni aspetti fondamentali sulle migrazioni. Queste, in primo luogo, sono un movimento globale e come tale vanno affrontate. Allargare lo sguardo oltre i confini europei e vedere che cosa accade altrove, dove il fenomeno è in atto da più tempo, aiuta comprendere che cosa si può fare e che cosa, invece, evitare. Ho citato il caso centroamericano perché l’Istmo che collega il Sud e il Nord del Continente americano è il corridoio migratorio più trafficato al mondo. In particolare l’ultimo tratto, la cosiddetta Linea: una cicatrice di 3.200 chilometri che unisce o separa – a seconda dei punti di vista o della convenienza politica – Messico e Usa. La ragione è evidente. Centinaia di migliaia di donne e uomini latinoamericani, condannati alla miseria feroce, cercano una possibilità di sopravvivenza nell’El Dorado statunitense. Non si tratta di una chance individuale: chi migra spesso non migliora la propria condizione. Riesce, però, ad aiutare la propria famiglia, per cui le rimesse rappresentano spesso l’unica possibilità di andare avanti.
Di fronte a questa pressione, Washington ha reagito con una progressiva chiusura. Nel 1990, l’Amministrazione Bush (padre) ordinò la costruzione del primo tratto di muro, tra San Diego e Tijuana. Attualmente la "Border Fence" blinda oltre un terzo del confine. Eppure questa enorme barriera – ora metallica, ora in muratura, ora virtuale – non ha fermato l’esodo. La militarizzazione ha, semplicemente, trasformato la migrazione irregolare in una delle principali fonti di reddito per le mafie. In particolare per i potenti cartelli della droga messicani che non si sono fatti sfuggire l’appetibile possibilità di business. A prezzo di indicibili sofferenze per i migranti. 

 
La guerra e il muro
La situazione si è aggravata progressivamente dagli anni Duemila. Fino all’attuale catastrofe. Che si consuma in coincidenza di un altro fenomeno: il conflitto invisibile in atto in Centro America. 
In Salvador, Honduras e Guatemala, le gang – o maras, eredità delle guerre degli anni Settanta e Ottanta – hanno acquisito il controllo di interi pezzi del territorio, in particolare slum e sobborghi, dove la presenza statale è tradizionalmente debole. Là sono le bande il vero potere. Ai residenti non è solo vietato avere rapporti con la polizia, ma pure con chiunque abiti "nel territorio nemico". Che spesso comincia appena svoltato l’angolo. Tutte le attività commerciali – venditori ambulanti inclusi –, inoltre, sono obbligati a pagare il "pizzo". Mentre i cittadini devono accettare il reclutamento – più o meno forzato – dei propri figli e figlie. Le gang non ammettono deroghe o eccezioni. Le persone hanno tre possibilità: accettare, morire o fuggire. 
Sempre più centroamericani "scelgono" quest’ultima opzione O, meglio, sono costretti a sceglierla per salvarsi da un conflitto non riconosciuto quanto reale. Per chi lo subisce, almeno. I governi e la comunità internazionale, al contrario, preferiscono "centellinare" la definizione di guerra. Perché altrimenti rischierebbero di dover dare ai milioni di abitanti in fuga da conflitti non dichiarati sparsi per il mondo la protezione prevista dagli accordi internazionali. 
In assenza di opzioni legali di espatrio, la migrazione irregolare resta la principale via di scampo. In media, 500 persone al giorno fuggono dal solo El Salvador - nazione grande appena quanto la Lombardia - diretti verso gli Stati Uniti. Gli esperti stimano che, ogni anno, mezzo milione di salvadoregni, honduregni e guatemaltechi fuggono verso il Nord. Man mano che la guerra centroamericana si fa più feroce, il numero di migranti cresce. Mese dopo mese. 
 
Repressione in appalto
Nell’estate 2014, 52mila bimbi e adolescenti , fuggiti dal Triangolo Nord senza genitori, hanno portato l’emergenza migratoria fin dentro la Gabbia dorata statunitense. Washington s’è trovata faccia a faccia con le conseguenze della "guerra che non c’è" in Centro America. E ha dovuto agire. A modo suo. Di nuovo, gli Usa hanno puntato prevalentemente sulla "chiusura" . Appaltando, però, gran parte del lavoro al Messico. Ogni riferimento al caso europeo non è puramente casuale.
Una settimana dopo il discorso in cui il presidente Barack Obama ammise la crisi dei bimbi al confine meridionale, l’omologo messicano Enrique Peña Nieto annunciò enfaticamente il Plan Frontera Sur (Programma frontiera sur). Il 7 luglio 2014, il leader di Città del Messico volò fine alla frontiera con il Guatemala e là, insieme all’allora presidente Otto Pérez Molina – ora sotto processo per corruzione -, descrisse un nuovo pacchetto di misure per "proteggere" i migranti. Quello che non disse, però, è che Washington "caldeggiava" l’iniziativa. E che – anche se i conti non furono mai indicati con trasparenza – vi avrebbe contribuito con 86 milioni di dollari iniziali . Una cosa, invece, è certa: da allora, gli abusi sui centroamericani in viaggio per il Messico – già fin troppo frequenti – sono cresciuti esponenzialmente. 
Al di là della retorica ufficiale, il Plan Frontera ha come principale obiettivo il "contenimento" del flusso migratorio. L’imperativo è fermare i centroamericani all’inizio del viaggio, impendendo che portino l’emergenza fino alla frontiera nord. A tal fine, i controlli lungo i 956 chilometri di confine tra sud del Messico e Guatemala ¬– porta di entrata per il nord - sono stati aumentati. Non tanto, però, da impedirne il viaggio: gli irregolari, dopotutto, sono un business irrinunciabile per il complesso di attori – legali e illegali – che li sfruttano. Non solo in Messico. Negli Usa gli indocumentados ¬– manovalanza a basso costo – sono una preziosa risorsa economica. Si è cercato, dunque, di trovare un equilibrio tra l’esigenza di contenere il flusso e la necessità di non far saltare il banco. A spese della parte più fragile: gli irregolari. 
Negli Stati meridionali di Chiapas, Oaxaca, Tabasco la pressione delle autorità si è fatta effettivamente più forte. Gli attivisti hanno denunciato una vera e propria "caccia" al migrante. Nel mirino delle autorità è finita soprattutto La Bestia. Il tetto del treno merci è stato, fino al 2014, il mezzo di trasporto preferito per gli "indocumentados", dato l’alto rischio di essere scoperti a bordo dei bus. Per "ragioni di sicurezza" – il termine scelto dal governo messicano per spiegare la misura è particolarmente infelice -, ora, la velocità del convoglio è stata aumentata. Cavalcare la Bestia ora è più difficile e le cadute più rovinose. Non solo. Le retate sui convogli di polizia, militari e agenti dell’Instituto nacional de migraciones (Inm) – schierati in massa nel Sud - si sono fatte continue. Spesso – come denunciato da varie Ong –, i centroamericani sono trascinati giù a forza dal treno, con metodi quantomeno discutibili . I posti di blocco si sono moltiplicati. Ogni pullmino privato, con a bordo eventuali migranti, viene ispezionato.
Per sfuggire alla repressione, questi sono costretti ad abbandonare, dunque, i sentieri classici e ad inoltrarsi, in genere a piedi, per le vie più remote e invisibili. Per i narcos – ma anche per i delinquenti comuni – è ora molto più agevole attenderli negli imbuti dove li spinge il Plan Frontera. In pratica, quest’ultimo li getta nelle loro braccia. Gli abusi e le violenze, frequenti anche prima, sono diventati ormai quotidiani. Stupri, assalti, rapimenti, assassinii, ogni tipo di delitto nei confronti dei centroamericani ha raggiunto livelli intollerabili. Prima del 2014 – raccontano i volontari della casa rifugio Hermanos en el Camino di Ixtepec -, un ospite su dieci raccontava di essere stato vittima di un crimine. Ora sono nove su dieci. E questo perché qualcuno preferisce tacere. 
 
Nuove rotte e nuovi drammi
Data la "caccia" a cui sono sottoposti dal crimine e dagli agenti, spinge i migranti a creare continuamente nuove rotte, praticabili almeno per un po’. Cioè fino a quando il crimine non le individua. O non le scoprono le autorità. Addirittura alcuni passano dal Guatemala via mare – dal porto di Ocós nel dipartimento di San Marcos – e "circumnavigano", a bordo di zattere improvvisate, le coste del Chiapas e l’Istmo di Tehuantepec per sbarcare al porto di Salinas Cruz, in Oaxaca. O nella spiaccia di San Francisco Ixhuatán, sempre nell’Oaaxca. Da entrambe, poi, raggiungono a piedi Ixtepec in attesa di prendere il treno per Veracruz. Il rischio maggiore, in questo caso, è rappresentato dalle imbarcazioni impiegate: sono vere e proprie carrette del mare. Anzi dell’Oceano. Nessuno saprà il numero reale di quanto sono annegati prima di raggiungere la costa messicana. A differenza del Mediterraneo, l’Oceano difficilmente restituisce i corpi. 
Gli "Aylan centroamericani", in questo senso, rappresentano un’eccezione. 
Eppure, a dispetto di questi "drammi collaterali", il Plan Frontera, almeno in un primo tempo, è sembrato aver centrato l’obiettivo. Il frangiflutti-Messico sembrava essere riuscito ad impedire alla "tempesta migratoria" di abbattersi in tutta la sua violenza al confine Usa. La maggior parte dei rimpatri, dopo il 2014, non è stata fatta dagli Stati Uniti bensì dal vicino meridionale, a cui è stato appaltato – dietro compenso – il "lavoro sporco". Nel 2015, il Messico ha fermato 190.366 indocumendados, oltre duemila alla settimana, il triplo rispetto al 2011. Ben trentacinquemila erano minori, 18.500 viaggiavano soli. Del totale dei fermati, 166mila sono stati ricacciati indietro. Nello stesso periodo, Washington ne ha rispediti in patria meno della metà, 75mila.
 
Ma il problema resta insoluto
Al di là delle evidenti questioni umanitarie suscitate dal Plan, quest’ultimo si sta rivelando meno efficace del previsto. Meno di un mese fa, l’Unicef ha presentato dei dati eloquenti. Nei primi sei mesi del 2016, 26mila baby migranti centroamericani in viaggio da soli sono stati fermati dalla Border patrol mentre cercavano di attraversare la Linea ed entrare in territorio statunitense. A questi si sommano i bambini catturati in compagnia di un adulto – in genere, la madre -: 29.700 persone. Il Messico, da parte sua, nello stesso periodo, ha stoppato 16.640 minori soli diretti a Nord. Sommando i due numeri si arriva a quota 42.640 cioè pio meno il livello dell’estate 2014, quando lo stesso presidente Barack Obama ammise l’emergenza. Com’è mai quest’ultima è ricominciata?
La realtà è un’altra. Come sanno quanti in Messico lavorano a contatto con i migranti. La "grande fuga" dei ragazzini dalla violenza record del Triangolo Nord – El Salvador, Honduras e Guatemala –non si è mai fermata. Non potrebbe essere altrimenti: negli ultimi anni, le maras hanno intensificato il reclutamento di minori. Il conflitto con le autorità ha provocato ingenti perdite nelle file delle gang. Queste ultime hanno necessità di rimpiazzare i caduti. E i minori sono una preda facile e perfetta per svolgere compiti di bassa manovalanza criminale. O per essere impiegati come "carne da cannone". La pressione criminale spinge, in misura crescente, decine di migliaia di adolescenti non accompagnati alla fuga verso Nord. Di fronte a tale emergenza, il Plan Frontera è riuscito a "tener lontano" i ragazzini dal confine Usa solo per un po’. Tra ottobre 2014 e maggio 2015 i minori fermati erano stati 14mila. Poi, i baby migranti hanno imparato ad aggirare i controlli e a seguire strade meno battute fino a raggiungere il confine nord del Messico. Già tra l’ottobre 2015 e il maggio 2016, i minori intercettati dalla Border patrol sono schizzati a quota 32mila. Ora, nella prima metà del 2016, siamo arrivati a 26mila in sei mesi.  
Dato che provengono da nazioni non confinanti, gli Usa non possono sottoporre i ragazzini alla "deportazione express". Questi ultimi hanno il diritto di presentare il loro caso di fronte a un giudice che deve decidere se sono meritevoli di protezione o devono essere rimpatriati. Spesso, però, i minori vanno in aula senza un legale, perché non è previsto il patrocinio gratuito. Sei su dieci di quanti si difendono soli – indipendentemente dalla loro situazione – vengono rispediti indietro. Tra il 18 luglio 2014 e il 26 aprile 2016, il Dipartimento di giustizia ha emesso 31.994 ordini di deportazione nei confronti di minori centroamericani. Gli attivisti sostengono che questi avessero tutti i requisiti per ottenere l’asilo. A sud del Rio Bravo non va molto meglio. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, oltre la metà dei 18mila piccoli fermati dalle autorità messicane, avevano le carte in regola per chiedere e ottenere lo status di rifugiati. Solo 138 ha presentato, però, la richiesta e appena 56 hanno avuto esisto positivo. I baby migranti hanno, infatti, paura di presentare istanza. Perché, anche se venisse accolta, fino a 18 anni verrebbero rinchiusi in luoghi drammaticamente simili alle prigioni. 
 
La "lezione" americana
Perché guardare all’America per capire l’Europa? Spesso, lo dicevo all’inizio, allargare lo sguardo aiuta a vedere i problemi con meno "preconcetti" e maggiore libertà. L’esempio statunitense mostra all’altra sponda dell’Atlantico come la "politica dei muri" spesso finisca per aggravare le emergenze invece di contribuire a risolverle. 
Washington ha, nell’ordine, negli ultimi vent’anni, ridotto i canali legali di accesso, costruito un muro, appaltato l’intensificazione della repressione al Paese confinante. Eppure, si ritrova con l’emergenza dei baby migranti alla frontiera, a sua volta punta dell’iceberg dell’esodo di massa dei centroamericani in fuga dalla violenza. Anzi, da una guerra che il mondo si ostina a non riconoscere. E, dunque, a non far nulla per risolvere. Non solo. Nel frattempo, il giro di vite e la militarizzazione dei confini ha fatto prosperare le mafie che lucrano sul traffico di esseri umani. In questo caso, i potenti narcos messicani che controllano il "corridoio" migratorio. Eppure, la retorica della paura e della chiusura, continua a far presa. Non a caso, uno dei grandi nodi delle elezioni dell’8 novembre è proprio il "muro". 
L’Europa ha l’occasione di imparare o almeno di non ripetere gli errori altrui. Anche se finora le sue scelte – in ordine sparso, dalle varie barriere all’accordo con la Turchia – sembrano proseguire sulle orme statunitensi. Marx diceva che la storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Almeno nella politica migratoria, il Vecchio Continente abbia il coraggio di spezzare tale perverso meccanismo!
 

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