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il Foglio

29 Agost 2014

Iraq, scegliere tra il provvidenzialismo francescano e le bombe. A che pro?

Per il fondatore di Sant'Egidio è cambiata un'era: il punto di non ritorno, per i cristiani mediorientali, è stato il 2003

 
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Al direttore - Ho letto il commento pubblicato dal Foglio ai due interventi interessanti del padre Pizzaballa e del patriarca caldeo Sako. Nonché l'acuto commento in prima pagina dell'Elefantino. Colgo l'occasione per esprimerti quanto più volte detto a voce: l'originale approccio del giornale alle tematiche e all'attualità del cristianesimo con testi, dibattiti, interventi. Anche se non sempre ne condivido l'impostazione, credo necessario discutere e avere materiale per discutere. L'intelligente scelta di pubblicare i due testi ci mette a contatto con il grido disperato del capo della Chiesa caldea, figura di intensa dedicazione alla causa dei suoi fedeli perseguitati, che assiste all'annientamento di una Chiesa quasi bimillenaria, e con il profondo e levigato sentire del responsabile della Custodia di Terra Santa, erede di un altro modo di stare in medio oriente, che ha le sue radici in San Francesco, una presenza disarmata che però resiste da quasi sei secoli. Lo scenario è la vita e la morte dei cristiani d'oriente, per usare un titolo di un importante libro di De Valognes (uno pseudonimo) di qualche anno fa. Un mondo che mi appassiona da decenni, in cui ho viaggiato e incontrato tante persone e che, un poco, ho provato a studiare (sto scrivendo sulla strage dei cristiani cent'anni fa nel 1915, che ebbe modalità per certi versi analoghe a quelle attuali). Lo sento con intensità anche perché ho amici cristiani rapiti in Siria da molti mesi. E' un mondo di grande dolore da secoli. Un mondo in cui le minoranze cristiane ed ebraiche hanno convissuto - in stato d'inferiorità, certo - con la umma musulmana, senza fondere le diverse identità (come nota Pizzaballa). Le stragi del 1915 furono un colpo mortale, dopo di che molte comunità cristiane (specie cattoliche) sognarono uno stato in cui fossero prevalenti. I maroniti ottennero il Libano. Gli assiro-caldei e i siriaci sognarono uno stato cristiano nel Kurdistan, che restò un'utopia. Sentivano che la condizione minoritaria era troppo indifesa. Tantissimi cristiani lasciarono la Turchia; molti si rifugiarono in Siria sotto mandato francese, specie ad Aleppo (città - l'ho ripetuto purtroppo ad alta voce più volte nel silenzio e nel disinteresse generale - che rischia domani di diventare una nuova Mosul, ma bisogna salvarla lavorando per creare una zona dove non si combatta!); altri cristiani restarono o si rifugiarono nel nord dell'Iraq. La Santa Sede aveva lavorato per liberare i cattolici dalla "protezione" francese (è questo a cui alludo nel mio scritto citato dall'Elefantino). Gli ebrei, colpiti dall'antisemitismo arabo e poi con la nascita d'Israele, non poterono vivere più nel mondo arabo, di cui erano stati una componente significativa: emigrarono e finì una cultura arabo-ebraica secolare (B. Lewis).

L'oriente cattolico, al di là del numero ristretto dei fedeli, è stato sempre molto importante per i papi: la terra delle origini. Il Libano era il cuore della strategia novecentesca (qui hanno sede due patriarchi cattolici e un terzo vi ha il suo centro), dove i cristiani non si sentivano minoranza. Come è noto l'oriente cristiano non è solo cattolico: copti, armeni, ortodossi, siriaci... grandi Chiese storiche. Le quali, come le cattoliche, fino agli anni Sessanta, sono sopravvissute divise e talvolta conflittuali tra loro: strategia storica anche di fronte al potere ottomano, quella di non creare un fronte cristiano. Oggi è mutata in un'èra ecumenica e di gravi difficoltà, che vede i cristiani soffrire e vivere insieme nel mondo musulmano. Un grande vescovo cattolico siriano, mons. Edelby di Aleppo, diceva anni fa: "Le divisioni sono nate in oriente e qui si dovranno ricomporre". Come il mondo cristiano ha impostato la sua sopravvivenza durante la guerra fredda e il nazionalismo arabo? La scelta lucida è stata essere nazionalisti, puntando su un nazionalismo arabo laico o meno islamico. Il nazionalismo arabo dei cristiani, peraltro, si è accompagnato - non lo si dimentichi - a un atteggiamento fortemente antisraeliano e talvolta antisemita. Ricordo nel 1982, in una visita a Damasco del ministro degli Esteri Andreotti, questi chiese al patriarca melkita Maximos V se dovesse dire qualcosa in favore dei cristiani al presidente Assad. Il patriarca, grande amico dell'Italia e della Francia, rispose però fieramente: "Ci difendiamo da soli, grazie!". I cristiani orientali - da quasi un secolo - ripetono che non sono avanguardie dell'occidente. Hanno voluto mostrare di essere arabi, ma non musulmani. Era una visione che ha avuto la sua funzione e ha la sua dignità. In questa prospettiva i caldei iracheni hanno considerato il regime di Saddam Hussein come il male minore per loro, convinti che, con la sua fine, sarebbe arrivato il diluvio. Lo diceva costantemente il patriarca caldeo Bidawid, piuttosto deconsiderato in Occidente. Così i cristiani siriani e mediorientali considerano il regime di Assad un'ultima difesa (come biasimarli oggi con il Califfato?). In Egitto, la Chiesa copta (la più grande nel mondo arabo, un cristianesimo di popolo che ha realizzato negli ultimi decenni la più profonda autoriforma tra tutte le Chiese della regione) ha appoggiato Mubarak - nonostante questi l'abbia subdolamente colpita - e vede la presidenza di Al Sisi come garanzia. Nazionalismo, stato forte, dittatura, sono considerati dai vertici delle Chiese (e non solo) garanzie verso le fluttuazioni del voto popolare, che schiaccia le minoranze e risente delle sirene estremiste. Ma anche verso l'estremismo se non il banditismo. Questo cristianesimo è abituato a vivere faticosamente. Deve fare i conti con l'emigrazione, che l'istituzione ecclesiastica normalmente sconsiglia, ma poi, per altre vie, finisce anche per favorire. Questo sistema è durato sino allo choc della guerra di George W. Bush e Tony Blair all'Iraq. Ne abbiamo discusso, caro direttore, tante volte fin dall'inizio delle conversazioni periodiche. Qui ora parlo di quella guerra solo nella prospettiva dei cristiani d'oriente. Non la volevano. In Iraq è stato l'inizio della fine per i cristiani con la rottura di quel triste equilibrio, ma vivibile (l'esperienza irachena spinge oggi i cristiani a difendere Assad, come ho detto). Si erano espressi in tutti i modi contro la guerra in Iraq (tra cui il predecessore di Sako), ma non furono né ascoltati né pubblicati. I cristiani del resto sono quantité négligeable. Chi si è posto il problema delle conseguenze della guerra su di loro?

Quel 2003 è stato un turning point per il cristianesimo iracheno e orientale, anzi di non ritorno. Cominciava lo scenario del XXI secolo: iperfondamentalismo totalitario, crisi degli stati forti, violenza diffusa... Una diaspora cristiana indifesa e minoritaria non può sopravvivere in queste condizioni. In Iraq da circa un milione e mezzo i cristiani sono calati a 400.000. L'idea di una zona ad alta presenza cristiana (sul modello libanese) nella Piana di Ninive era stata avanzata dopo la guerra in Iraq; vecchio disegno sul modello libanese che avrebbe meritato qualche riflessione in più. E' stata respinta: "Un ghetto non servirà a salvarli" (ha dichiarato Sako nel 2007). Ricordo un alto funzionario vaticano (diplomatico) come di fronte a una domanda sulla Piana di Ninive rispondesse qualche anno fa: "Purtroppo non mi sono fatto ancora un'idea". Qui è mancato un pensiero sul futuro, mentre la tragedia era annunziata. Non era facile. Ma è mancato. Chi doveva averlo? Bisogna capire cos'è un episcopato orientale, le sue divisioni, la sua relativa leadership, ma anche con tante difficoltà. Dopo la visione d'una integrazione nel nazionalismo arabo, non c'è stato un altro disegno. I discorsi dei leader cristiani sono un insieme di registri diversi (appelli all'occidente, lealtà all'arabismo, dovere della testimonianza di una diaspora...), ma certo sono dolorosamente intrisi di sofferenza. La situazione è di una difficoltà incredibile. Concordo con l'Elefantino che occorre realismo, non contrastante con la fede e la spiritualità. Ma bisogna essere realisti. L'emergenza ora è difendere lo spazio dei cristiani tra Ninive e il Kurdistan. Del resto la diffidenza dei cristiani verso i curdi (ricordati come persecutori dei cristiani di cent'anni fa e in tempi più recenti) è stata vinta da non molto tra i cristiani, anche con la svolta culturale curda che ha recuperato (aihmè, forza del politically correct!) il multiculturalismo in tutta la regione. Ma il futuro - a volerlo vedere laicamente! - non è facile. Oggi, nella regione, la Turchia (non molto amata dai cristiani d'Oriente per i ricordi del passato) diventa un paese d'asilo,    come si vede dai campi per i cristiani nella zona di Mardin e dalle offerte generose del governo di Ankara. Sarebbe giusto e bello che i cristiani restassero dove hanno vissuto per millenni; ma non si può chiedere il "martirio" a intere famiglie. Molti vogliono emigrare. Ne hanno il diritto. Il card. Barbarin di Lione mi diceva della dignità dei cristiani rifugiati in Kurdistan, da cui non ha sentito parole di vendetta. E poi è gente che coraggiosamente non si è convertita all'islam: strada che era stata loro offerta per restare. Ne conosco alcuni e li ammiro. E qui - dico tra parentesi - l'orrore nel vedere gli yazidi convertiti a forza all'islam e obbligati a esibire la loro gioia! Cent'anni fa gli yazidi (odiati da sempre dai musulmani e periodicamente sterminati) nascosero i cristiani perseguitati nel loro Sinjar. L'Elefantino contrappone Sako a Pizzaballa. Realismo a provvidenzialismo? Non so quanto il grido di dolore di Sako offra una proposta realista. Non saranno le truppe occidentali a garantire ai cristiani di restare: potranno superare questa terribile emergenza... E poi? E poi c'è la complessità del mondo musulmano, in cui agire realisticamente. Oggi il grande problema è il totalitarismo del Califfato. Ma non solo. Continuo a pensare che il mondo musulmano abbia una sua articolazione, anche verso la presenza dei cristiani. I musulmani (almeno taluni) sanno che prima si colpiscono i cristiani, ma poi arriva l'ora degli altri, musulmani spirituali, diversi, sciiti, laici, donne. I cristiani sono una garanzia di pluralismo nelle società musulmane (questa è la tesi a cui si è cercato di sensibilizzare il mondo musulmano). Concordo che ci vuole uno sforzo di strategia realistica. Il che non nega né la preghiera, né le motivazioni di fede nel compiere una via irta di difficoltà. Il realismo in medio oriente richiede non cedere alle semplificazioni (che ci tranquillizzano, ma non sono realiste). Ci vuole una politica complessa, capace di lavorare sulle articolazioni del mondo musulmano, di chiedersi se c'è ancora una spazio in cui i cristiani potranno vivere in Iraq (Kurdistan? Ninive?), di sostenere il loro reinsediamento. Per questo bisogna non spegnere la luce sul dramma cristiano, yazida e delle altre minoranze... e sul totalitarismo del Califfato e connessi.


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