"Corriere della Sera", Italia
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Vi sembrerà probabilmente un paradosso, ma devo dire che da qualche giorno, pensando e riflettendo sul Medio Oriente, sono tornato a frequentare un compagno che temevo di aver perduto: l'ottimismo. Ottimismo congelato, anzi ibernato dal crescente pessimismo per una serie impressionante di cattive notizie: notizie che sembravano andare nella direzione di una terribile guerra, sempre più ampia ed estesa, con il rischio concreto di un coinvolgimento davvero globale.
Il paradosso è reso, se mi consentite, ancor più paradossale da una sensazione che mi sembrava quasi palpabile. Cioè il richiamo alle logiche della "guerra fredda" di tanti decenni fa, che i giovani di oggi hanno potuto vedere soltanto nei film. Quando, cioè, l'Unione sovietica e i suoi satelliti del cosiddetto socialismo realizzato, erano pronti a utilizzare tutti i mezzi a disposizione per provocare e colpire un nemico, quell'Occidente libero e prospero, guidato dagli Stati Uniti d'America. Un Occidente che talora, anzi spesso, utilizzava gli stessi disinvolti sistemi dell'avversario: un misto di provocazioni, propaganda, e scorribande dei servizi segreti e del loro agenti, pronti a tutto, anche a ricorrere alla licenza di uccidere.
Ma i protagonisti della "guerra fredda", soprattutto all'Est, ma anche all'Ovest, sapevano bene come arrivare alla frontiera dell'estremo, fermandosi all'ultima stazione, prima del baratro, che sarebbe potuto diventare persino un abisso nucleare, con immagini terrificanti. Quindi, utilizzare tutti i mezzi, pronti però a fare marcia indietro. La crisi dei missili e il blocco di Cuba sono l'esempio del passato più lampante per far capire quel clima di "guerra fredda".
Quel che è accaduto in Siria, dove si sta combattendo una feroce guerra civile, sembra quasi andare in questa direzione. La Siria viene minacciata non nel momento peggiore (ah, se ci si fosse mossi un anno fa!, abbiamo tutti pensato spesso) ma nel momento in cui era stata preparata quella che aveva tutta l'aria d'essere una trappola. Una trappola pretenziosa e maldestra, l'utilizzo del gas venefico, del gas che uccide. Il primo sospetto, dopo che le navi da guerra americane stavano già dirigendosi verso il Mediterraneo orientale, mi è venuto subito, pensando alla Siria e a cosa significa la Siria per la Russia di Vladimir Putin. Damasco è l'alleato di cui Mosca non può fare a meno, e su quel legame -probabilmente- si è sviluppata la partita estrema. La mossa, sulla scacchiera, era così angosciante da imporre non soltanto uno sforzo di fantasia diplomatica. Ma anche necessaria per far ritrovare, allo stesso tavolo, gli Stati Uniti e la Russia, dopo la crisi provocata dal Datagate e dall'asilo concesso da Putin a Edward Snowdon, e spingerli a unire gli sforzi - nonostante le evidenti difficoltà di condivisione di due caratteri diametralmente opposti - il solare Obama e l'arrogante e ambiguo presidente russo- per disinnescare la crisi più devastante: appunto quella siriana.
Se non ci fossero state le minacce, e il richiamo a quella "linea rossa" evocata troppo frettolosamente da Barack Obama per punire con la forza chi avesse osato adoperare armi chimiche, probabilmente la guerra civile siriana sarebbe andata avanti come prima, e avremmo dovuto assistere impotenti alla moltiplicazione dei massacri. Un secondo sospetto mi è venuto osservando i video, postati su facebook e su youtube dai ribelli anti-Assad, sui morti per il gas, alla periferia di Damasco. Video strani. Mi avevano colpito l'innaturale postura di alcuni cadaveri, i volti dei bimbi, e l'assenza di donne. Avendo assistito personalmente ad un'orribile manipolazione, proprio di cadaveri, avvenuta in Libano negli anni Ottanta, il dubbio era più che legittimo. Anche perchè mi avevano colpito le dichiarazioni del procuratore Carla del Ponte, la quale sosteneva che, secondo numerosi elementi raccolti, il gas sarebbe stato utilizzato dall'opposizione, non dal regime.
Ora, che in Siria vi siano depositi di armi chimiche era noto a tutto. Del resto la Siria non aveva firmato la Convenzione di Parigi per la messa al bando, appunto, delle armi chimiche nel 1993. Questo però non escludeva che i gas fossero stati sottratti, o rubati, magari dalle mani esperte degli ufficiali che hanno abbandonato le Forze armate del regime per unirsi all'opposizione.
Ero convinto che il presidente Obama avrebbe comunque, nonostante le apparenze e le minacce, rinviato l'attacco. Forse attendendo, nel rispetto di un gioco delle parti con Mosca che non è neppure necessario esplicitare, la mossa dell'amico-protettore di Damasco, che è puntualmente arrivata. E che forse potrebbe contribuire ad avviare quel percorso necessario alla pacificazione. Un percorso accidentato, lungo, irto di ostacoli e dei giochi inconfessabili dei tanti attori regionali interessati ad alimentare la confusione e a incentivare le condizioni per una guerra totale tra sciiti e sunniti.
Devo dire che anche stavolta, come già accadde con la crisi di Cuba, al tempo di papa Giovanni XXIII, è stato essenziale, e forse decisivo, il ruolo del pontefice, di papa Francesco. Non soltanto con la sua immensa autorità morale, ma con la consapevolezza di parlare a nome di tutti coloro (credenti di ogni religione, di ogni fede, laici e atei) che sono animati dal desiderio della pace, pronti a scendere in piazza e a far sentire la loro voce, anche con il silenzio e il digiuno.
Il gesto di Francesco, com'è bello poter chiamare il Papa così, è stato di straordinaria rilevanza politica. Chi conosce il Medio oriente sa bene quanto la parola del Papa sia seguita e ascoltata in Libano, in Siria, in Giordania, in Iraq, in Iran. E sia ascoltata con interesse e circospezione persino nell'Arabia Saudita del fondamentalismo sunnita, che però oggi deve venire incontro ai bisogni religiosi di milioni di lavoratori cristiani, e soprattutto cattolici, che vivono nel regno.
Le parole di papa Francesco contro i mercanti del commercio illegale di armi, che sfruttano le guerra per pubblicizzare e vendere i loro strumenti di morte, hanno avuto un impatto che forse fatichiamo ad immaginare.
Un po' di ottimismo, allora! Quell'ottimismo che potrebbe aiutare l'Egitto a ritrovare la strada di una convivenza tra le parti, e tra musulmani e cristiani copti. E quell'ottimismo che potrebbe infondere coraggio ai riformisti iraniani, che sono tornati al potere con Rohani, nonostante il compromesso con la componente più oltranzista, rappresentata dall'ayatollah Kamanei. E' chiaro che una nuova atmosfera potrebbe far ripartire anche il negoziato sulla madre di tutti i problemi. Cioè quell'accordo tra israeliani e palestinesi che potrebbe essere preludio ai due Stati, Israele e Palestina che vivano l'uno accanto all'altro in pace e sicuri. Ecco, se questo si materializzasse vorrebbe dire che le primavere arabe, nonostante errori madornali e pericolose scivolate, hanno almeno trovato non solo un obiettivo, ma un traguardo vero: la convivenza. Vi ringrazio per l'attenzione.
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