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Peace is the future

 
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9 September 2014 09:30 | Thomas More, Campus Carolus, Aula 006

Intervento


Jawad Al-Khoei


Secretary General of “Al-Khoei” Foundation, Iraq

Vorrei cominciare con la dimensione umana, irachena, a prescindere dai confini delle religioni, delle nazionalità e non vorrei usare questi termini. Quello che noi vogliamo in Iraq è uno Stato civile, non uno Stato religioso. La separazione tra la religione e lo Stato, e questo noi lo abbiamo detto a Najaf, è il problema dell’Islam politico: quando noi vogliamo dare un aspetto religioso alla politica, usiamo il nome del Signore, di Dio, in ogni parte della vita.

I leader religiosi devono allontanarsi dalla politica; noi, come leader religiosi, dobbiamo ritornare al nostro ruolo iniziale, dal punto di visto morale e umano. Abbiamo bisogno dello Stato delle Istituzioni, non dello Stato degli individui.

In Belgio c’è stato un record per quanto riguarda l’elezione del premier, ma la vita è andata avanti in modo molto normale. Questo non è successo da noi in Iraq, perché noi non abbiamo formato uno Stato delle Istituzioni. Il paese è basato su delle persone. E’ questo il problema più grande in Medio Oriente e nel mondo arabo in generale. Bisogna formare lo Stato del cittadino, non lo Stato delle appartenenze nazionali; posso dire che io sono iracheno, non importa qual è la mia etnia, qual è la mia religione. Posso dire: io sono iracheno, sono uguale a tutti nei doveri e nei diritti.

I cristiani, centinaia di anni fa, erano una maggioranza, erano i padroni della terra. Noi musulmani siamo subentrati solo più tardi in Mesopotamia. Dopo centinaia di anni i cristiani sono diventati una minoranza, dal punto di vista dei numeri. Ma l’essere maggioranza non dà diritto ad emarginare l’altro, ad escludere l’altro. Che c’è in comune tra l’arabo, il curdo e il turcomanno? Che c’è in comune tra il sunnita e lo sciita? Che c’è in comune tra il cristiano e il musulmano? Soltanto la cittadinanza e l’identità irachena.

Abbiamo un problema in Iraq: la definizione dell’identità. Lo sciita dice: io sono il vero iracheno! E il sunnita dice: io sono l’iracheno originale, quello degli inizi! Gli yazidi? Sono estranei in questa terra? Certamente no.

La convivenza è quello che vogliamo. Noi vogliamo l’uguaglianza fra tutti, la giustizia per tutti. Certo, questo è un augurio, ma io ho diritto di essere ottimista e di augurare questo. Ma io sono anche sicuro che ciò che è giusto si debba avvera e arriverà il giorno in cui vedremo questo augurio realizzarsi.

Il problema più importante oggi nel mondo, soprattutto nel mondo musulmano e arabo, è quello del giudicare l’altro come infedele. Dire all’altro: tu sei infedele, vuol dire togliergli un diritto importante, quello di respirare! Questo linguaggio è estraneo alla società irachena. La società irachena è una società civile, non una società religiosa. E’ questo è il messaggio di Najaf, il messaggio della più alta istituzione religiosa che chiede la separazione tra la religione e lo Stato.

Il conflitto in Iraq non è un conflitto religioso e confessionale, ma è un conflitto politico. Vorrei fare un esempio realistico. Tutti dicono che in Iraq c’è un conflitto tra curdi e arabi, tra musulmani e cristiani tra sunniti e sciiti. Io mi domando: in Libia ci sono cristiani? Perché i musulmani in Libia si uccidono a vicenda? Nel Sinai, in Egitto, ci sono sciiti? Mi domando: perché lì decapitano le persone? Questo dimostra che si tratta di gruppi che dicono che l’altro è infedele e non vogliono che l’altro viva.

Il conflitto è tra il bene e il male, il conflitto è tra chi vuole vivere e chi vuole eliminare l’altro, il conflitto è tra la vita e  la morte, tra la civiltà e la barbarie. Noi tutti siamo nella stessa barca. Chi ha appiccato il fuoco in Iraq e chi getta benzina sul fuoco, un giorno senza dubbio ne patirà le conseguenze.

Mi chiedo: noi spendiamo ore e ore a chiederci come risolveremo il problema dell’ISIS. Ma abbiamo pensato per un momento a quali sono le motivazioni dell’ISIS? Come sono apparsi in Iraq? Sono forse scesi dal cielo o piuttosto sono venuti dai paesi confinanti? Chi finanzia l’ISIS? Chi li addestra? Chi ha fornito all’ISIS questa enorme quantità di armi?

Il problema sta nella nostra educazione, nella nostra cultura; il problema è nei nostri programmi scolastici, nella nostra storia. E’ possibile combattere l’ISIS in due modi. Uno militare: la NATO e altri paesi possono combattere; il secondo con l’intelletto e la scienza. 

Ci sono due fattori, uno interno e uno esterno. Quello interno è più importante di quello esterno. Noi dobbiamo resistere, noi dobbiamo lottare, noi dobbiamo unirci e non dobbiamo permettere a queste persone di infiltrarsi in Iraq.

Noi in Iraq abbiamo bisogno di un supporto europeo, internazionale a tutti i livelli. Noi viviamo una democrazia appena nata, per quanto riguarda la libertà e la costruzione dello Stato. L’Iraq combatte contro il terrorismo non solo per se stesso, noi combattiamo il terrorismo anche per conto del mondo. Se i terroristi vinceranno in Iraq, andranno in Europa, in America, in tutti i paesi del mondo.

Abbiamo bisogno di un supporto culturale, militare, politico internazionale. Il supporto delle Istituzioni delle società civili, a tutti i livelli. Nel futuro prossimo per liberare le zone occupate dai terroristi; a medio termine per far mettere radici a una vera democrazia; a lungo termine per promuovere il linguaggio del dialogo e della convivenza. Sono consapevole che quello che dico è difficile. 

Io sono contrario all’emigrazione di queste componenti che fanno parte del mosaico iracheno. Forse non sono obiettivo e non sono logico, perché il terrorismo, l’ISIS e altri gruppi identici, vuole che queste componenti lascino l’Iraq e quindi andando via dall’Iraq faremo quello che vogliono loro. Noi piuttosto lotteremo e resisteremo. Noi a Najaf abbiamo aperto il nostro cuore e le nostre case a tutti.

 

(trascrizione dalla registrazione audio-video a cura della redazione)

 


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