Seduto in prima fila c'è anche Aboudi, che ha dieci anni ed è appena arrivato in Italia dalla Siria: assiste a tutta la preghiera dalla sua sedia a rotelle, concentratissimo, accanto a sua mamma Rima che non gli toglie gli occhi di dosso.
Rima piange spesso, soprattutto quando ascolta i nomi dei bambini morti nei viaggi della speranza «perché penso a quello che poteva rischiare il mio bambino». La famiglia di Aboudi è una delle tante che la Comunità di Sant'Egidio, insieme alle Chiese metodiste e valdesi, ha fatto giungere in Italia dai campi profughi in Libano con i "corridoi umanitari", per evitare che rischiassero la vita nelle traversate verso l'Europa e per mostrare all'Occidente che esiste una via praticabile che unisca sicurezza, umanità, convenienza per tutti.
Sono persone musulmane - ancora nel pieno del digiuno del mese di Ramadan - ma siedono sulle panche dell'antica basilica barocca dell'Annunziata del Vastato, a Genova, per unirsi alla veglia di preghiera «Morire di speranza» in ricordo di tutte le vittime delle migrazioni verso l'Europa.
Gli organizzatori - Comunità di Sant'Egidio, Centro Astalli, Caritas italiana, Fondazione migrantes, Federazione Chiese evangeliche in Italia, Comunità Papa Giovanni XXIII e Acli hanno raccolto giovedì scorso, 23 giugno, 1500 tra richiedenti asilo, immigrati, membri di associazioni, donne e uomini turbati dallo stillicidio di morti nel Mediterraneo. A presiedere la preghiera è stato il cardinale Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti: «il Signore ascolta la storia di ognuno di noi - ha detto nell'omelia - di ogni migrante e di ogni rifugiato e ci insegna a riconoscerci come parte della famiglia umana, come fratelli e sorelle lungo il sentiero della vita che talvolta affatica e addolora l'anima e il corpo». Alle tante donne e uomini che hanno portato nomi di parenti e amici morti nei viaggi della speranza, il porporato ha rivolto una parola di affetto, ma ha voluto anche esortare gli europei: «cari amici migranti e cari rifugiati, stasera qui riuniti, preghiamo per le vite innocenti, spezzate, lungo le rotte della speranza, via mare e via terra, mentre soffiano i venti contrari del pregiudizio e della diffidenza contro chi tende la mano disperato verso i Paesi ricchi e in pace. Siamo testimoni di immagini televisive e di politiche che seminano ingiustizia, rassegnazione e paure. Non lasciamoci travolgere dalla tempesta dell'indifferenza che intorpidisce i cuori e mina i valori storici e cristiani dell'Europa, ma, alleviando il dolore di questi fratelli e queste nostre sorelle migranti, poniamo le basi per la pace in Europa per le generazioni future». Il cuore del problema è la paura del forestiero: «e noi - ha proseguito monsignor Vegliò - non possiamo lasciarcene travolgere: la storia ci giudicherà e il Signore attende di essere riconosciuto nei migranti e nei rifugiati. Non possiamo tollerare un'Europa che chiude le proprie frontiere e le porte del proprio cuore. Il Mediterraneo deve tornare a essere un luogo di incontro e non un luogo di morte, il nostro continente deve ricordare la sua storia di democrazia e rispetto per i diritti e istituire corridoi umanitari per salvare sempre più persone».
Nella basilica gremita, si sono ricordati poi i nomi e le storie di decine di morti nel deserto, nel Mediterraneo, lungo la "rotta balcanica": un rosario di nomi commovente, pieno di bambini e giovani. Dalla fine del 2014 a questa prima metà del 2016, si stima che in più di diecimila siano morti nei "viaggi della speranza", e la gran parte è annegata nel tratto di Mediterraneo che è davanti all'Italia. Andrea Chiappori, responsabile della Comunità di Sant'Egidio di Genova, lo afferma con decisione: «Ricordare, cercare soluzioni a questa tragedia è un atto di pietà, ma non solo: vuol dire fermarsi per non farsi prendere dall'indifferenza e dalla rassegnazione. Perché ogni volta che nel nostro mare muore un uomo, muore un po' della nostra umanità»
Sergio Casali
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