La memoria dei 1.868 morti di Gaza è crudelmente viva a Ramallah. Mentre le 72 ore di "pace armata" scorrono, al contempo, veloci e lente, i palestinesi di Cisgiordania piangono le vittime e soffrono con i sopravvissuti. Le notizie che arrivano dalla Striscia sono drammatiche: 485mila sfollati, 30mila case danneggiate insieme a 141 scuole, 17 ospedali. l'unica centrale elettrica è stata distrutta e la corrente arriva da due impianti vicini a malapena due ore al giorno. «Solo refrigerare gli alimenti diventa un'impresa», afferma Mario Marazziti, presidente del comitato Diritti Umani della Camera, di Democrazia solidale, appena rientrato dalla Terra Santa con una missione della commissione Esteri guidata dal presidente Cicchitto. Eppure Marazziti, con una lunga esperienza di conflitti alle spalle, dal Mozambico al Burundi, non ha dubbi: è necessario andare oltre «la patologia della memoria» per costruire la pace.
È ancora una speranza concreta dopo l'ultimo conflitto? Di certo, questa guerra ha indebolito il pensiero della pace. Si fa fatica a credere che le parti riescano ad uscire dal meccanismo di azione-reazione. Al contempo, però, la guerra potrebbe segnare una svolta, trasformando la disperazione in necessità della pace. Sempre che si verifichino alcune condizioni.
Quali? Analizziamo prima quelle già esistenti che potrebbero favorire la fine delle ostilità. Innanzitutto, il cambio di leadership al Cairo. L'Egitto di Sisi è seriamente impegnato per il negoziato. Vi è stata poi un'inedita apertura israeliana a una forza internazionale per controllare Gaza. A ventilarla è stato il ministro degli Esteri Lieberman nell'incontro con noi qualche giorno fa. Poi oggi (ieri, ndr) c'è stata un'ulteriore dichiarazione del capo della diplomazia israeliana che si è detto favorevole alla presenza di ispettori Ue ai valichi di confine. E qui veniamo a una delle condizioni fondamentali per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese: il ruolo dell'Europa.
Quale dovrebbe essere? L'Ue deve assumersi la responsabilità del Mediterraneo. Per vent'anni ci siamo concentrati sul partenariato orientale e sull'Afghanistan. Ora questa non può più essere la priorità. Lo scenario internazionale è cambiato. Il dilagare del jihadismo su scala globale richiede un'agenda comune tra Occidente e islam moderato, entrambi vittima del radicalismo. Perché questo accada è imprescindibile porre fine allo scontro pluridecennale in Terra Santa. L'Italia in questo senso è ben disposta. Speriamo che gli altri Ventisette se ne convincano. Questo va nella direzione della pace indicata da papa Francesco.
Gli Stati Uniti lo consentiranno? L'ultima mediazione Usa ci ha lasciato un insegnamento: non si può tenere fuori l'Europa. Forse qui sta anche una via per cambiare metodo. Ora è importante far tornare le parti a dialogare, con l'aiuto di Egitto, Ue e Paesi islamici moderati.
Hamas e Israele sarebbero d'accordo? Hamas in quanto tale non credo. Israele, Abu Mazen e governo palestinese attuale penso di sì. E, in questo modo, indirettamente, Hamas non può bloccarlo. La ricostruzione e demilitarizzazione di Gaza sono la chiave. Non possiamo lasciare che ci siano "due Palestine". Dopo la conferenza dei donatori a settembre, guidata da Italia e Norvegia, va trovato un modo di aprire l'enclave, finora sigillata, senza compromettere la sicurezza. Con una forza internazionale. E utilizzando il tempo della ricostruzione per decomprimere la vita, ora insopportabile, dei palestinesi a Gaza. Occorre rispondere alla grammatica della protesta e della disperazione, che alimenta lo scontro armato, sempre perdente per i palestinesi, con un'azione positiva.
Lo crede possibile? Il Patriarca Twal ha definito Israele e Palestina come "la terra dei dubbi e delle domande". È tempo di trasformarla in "terra di risposte". Con più Europa credo che sarà possibile.