Con l'insediamento della giunta in città, da più parti si esprime un desiderio di cambiamento. L'auspicio è che si possa fare meglio, come accade in ogni inizio: una nuova pagina su cui riscrivere progetti e politiche. Che la breve pausa estiva aiuti a prendere un po' le distanze dall'eccessiva polarizzazione su alcuni temi e persone, dalle polemiche e vorrei dire anche dalle malignità. Resta ancora la percezione di una città divisa, spaccata a metà. Non sull'ospedale, l'auditorium o lo stadio: importanti opere per la cui realizzazione occorre ragionare e lavorare per offrire servizi migliori ai cittadini e non sprecare il bene comune. Nemmeno sul
rilancio economico, la soft city, la Padova 4.0: non ci siamo divisi veramente su questo. Anzi il dibattito, pure segnato da posìzioni diverse, evidenzia in realtà soprattutto la stanchezza per non aver ancora trovato soluzioni a fronte di esigenze sentite da tutta la cittadinanza da almeno un paio di decenni.
La città è invece ancora divisa rispetto alla percezione che ha di sé e alle minacce che sembrano incombere sulla vita di tutti i giorni. Nei quartieri, incontrando la gente, abbiamo raccolto tante storie, soprattutto di solitudine. Abbiamo visto il rarefarsi delle reti sociali. Non bisogna nemmeno sottovalutare la paura che in questo tempo si proietta soprattutto sui migranti. Sono paure che derivano talora da vissuti di oggettiva tensione in alcune periferie, ma che sono alimentate da strumentalizzazioni e campagne in cui continuano a prevalere toni forti e voci urlate. Così la cultura del conflitto prende spazio. Anche i poveri, i bisognosi e i fragili fanno paura. Persino gli anziani, i disabili. Meglio stare separati, come se dividersi per gruppi omogenei garantisse protezione e sicurezza. Nella città di oggi, allora, si affrontano convivenza ed esclusione.
Per questo, a Padova da tempo la Comunità di Sant'Egidio ha voluto porre il tema della città del futuro come città aperta e inclusiva. La sfida è sentire ancora di appartenere a una "comunità di destino": una città umana che "cresce con lo sguardo che 'vede' l'altro come concittadino", come scrisse papa Bergoglio tempo fa. Credo sia necessario attuare iniziative che vadano in questa direzione. Occorre mettere i poveri al centro dell'agenda cittadina. C'è bisogno di tessere legami di condivisione tra le persone, che sono più distanti e diverse tra loro che in passato.
Questa "voglia di comunità", per dirla con Bauman, è la nostra esperienza delle serate di amicizia nei quartieri, organizzate con anziani, bambini, profughi, adulti italiani e immigrati. È l'esperienza di tanti studenti che nella distribuzione della cena ai più bisognosi scoprono dignità calpestate, umanità dolenti, ma anche amicizia e pace da portare e costruire. E' l'incontro con i richiedenti asilo, la cui speranza di futuro è energia contagiosa, le cui storie, se ascoltate, toccano il cuore di tutti. Certamente la complessità del fenomeno migratorio impone nuove soluzioni, più efficaci, come l'apertura di canali di ingresso regolare.
Ma credo anche che, in pace, dovremmo smettere di caricare sulle spalle di questi giovani i fardelli delle nostre paure, i nostri giudizi cattivi, la nostra ostilità respingente. Non è impossibile fare spazio tra noi. Anzi, con la ripresa, emerge la necessità di manodopera e il lavoro favorisce l'integrazione. C`è la sfida di imparare a vivere insieme e essere, ciascuno, artigiano di pace. Così troveremo anche più sicurezza. È il tempo di cercare con coraggio una via che dalle periferie al centro sappia ridisegnare la cultura del convivere e restituire a Padova la sua vocazione di città aperta e inclusiva.
Alessandra Coin
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