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17 Agosti 2017

Prove urbane di umanità

Sotto la stazione, contro l'indifferenza

Nel Memoriale della Shoah di Milano, sorto presso il binario dove fino al '45 partivano i treni diretti ai campi di sterminio, è attivo un centro di accoglienza per i migranti. Nessuna analogia storica, nessuna presa di posizione sui flussi d'immigrazione. Solo un gesto ispirato a un sentimento di umanità

 
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Danai ha 17 anni, viene dall'Eritrea e i suoi occhi neri ridono quanto i denti bianchissimi, leggermente accavallati. Ha voglia di parlare, ma prima chiede di farsi una doccia e mangiare. Ha passato la giornata in strada nella settimana più calda dell'estate milanese, aspettando che riaprisse il centro di accoglienza allestito nel Memoriale della Shoah, che sorge intorno al binario della Stazione Centrale dove i nazifascisti caricavano i treni diretti ai campi di sterminio. La struttura, allestita nella zona degli uffici, è operativa ogni giorno dalle 20 alle 8, spartana ma pulita. Offre quaranta posti letto (brandine), un'area mensa e ambitissimi bagni, con docce installate appositamente: un'opportunità per i migranti di lavarsi e lavare i panni.
Danai esibisce un taglio di capelli che ricorda quello di Elvis Presley. Mentre mi siedo con lui su una brandina, osservo con divertimento quella che penso essere la piccola concessione alla vanità di un teenager, a dispetto della sua condizione difficile. La verità invece è buia. «Dall'Eritrea sono passato in Sudan, poi in Libia. Nel deserto non c'era cibo, non c'era acqua, ci picchiavano» ricorda e con la mano scosta il ciuffo scanzonato. Sotto, all'attaccatura dei capelli, l'osso è piegato verso l'interno e porta l'impronta di un colpo subìto.
La storia di Danai, il suo sorriso sotto il cranio sfondato sono la dimostrazione che bisogna fare qualcosa.
"Indifferenza" è la parola impressa sul muro d'ingresso del Memoriale. A volerla è stata Liliana Segre, che da lì, perché ebrea, fu deportata ad Auschwitz il 30 gennaio 1944. Aveva 13 anni. Nell'ultimo quarto di secolo la sua è stata una voce instancabile. Parte del suo impegno è testimoniare come la prima causa di ciò che le accadde fu il disinteresse delle persone normali, della Milano in cui era cresciuta, delle guardie di frontiera svizzere che ignorarono le sue suppliche di bambina e rimandarono lei e il padre in Italia, dove li agguantarono gli aguzzini.
L'iniziativa al Memoriale non intende creare alcun parallelismo fra migranti e Shoah - gli stessi organizzatori ci tengono a precisarlo. La lotta all'indifferenza però riguarda ogni generazione. «L'appoggio di Liliana Segre è stato fondamentale nella decisione di creare un punto di accoglienza in questo luogo» -
spiega Stefano Pasta della Comunità di Sant'Egídio, l'organizzazione di ispirazione cattolica che coordina il funzionamento del centro. «Nell'estate 2015 la stazione era divenuta il punto di passaggio per le decine di migliaia di persone che, sbarcate in Italia, puntavano a raggiungere il Nord Europa. Un presidio così vicino ai treni si rivelò un aiuto fondamentale. Questo è il terzo anno in cui lavoriamo nei mesi estivi: abbiamo ospitato 7mila persone. Quando abbiamo annunciato la riapertura, nel giro di 24 ore ci hanno contattato oltre cento cittadini offrendosi come volontari. Anche la solidarietà può essere contagiosa».
Ogni sera al Memoriale si alterna un gruppo diverso di volontari. Il mercoledì tocca alle Genti di Pace, che all'interno di 
Sant'Egidio organizzano attività che coinvolgono italiani e immigrati. A servire la cena sono Alicia, Gladys e Giovanna, che vengono dal Perù, mentre all'ingresso rimane Fouad originario del Marocco, insieme ai milanesi Mimma e Fabio.
«Quest'anno l'emergenza è rappresentata dai minori non accompagnati - sottolinea Marzia, la coordinatrice - . Qui diamo la priorità a loro. Come minorenni avrebbero diritto a essere accolti in strutture permanenti, ma non ci sono abbastanza posti. Così tornano». Mentre parliamo l'aria è intrisa dell'odore di pasta al pomodoro condita con il parmigiano, e il profumo si mischia al rumore dei treni che passano sulle nostre teste, facendo tremare il soffitto di cemento. Questa notte gli ospiti sono quasi tutti maschi, per la maggior parte eritrei. Dopo cena, molti si affollano intorno alla ciabatta elettrica per caricare i cellulari: sono in tanti ad averli, unico bene posseduto insieme ai vestiti che indossano, il solo legame con le famiglie lontane.
Abdel mostra sul telefono una foto della mamma avvolta in un velo azzurro acceso. Ha 23 anni, gli occhiali e l'aria da intellettuale. In Sudan studiava chimica, poi è stato espulso dall'università per ragioni politiche. Thomas, liberiano, racconta di essere stato sequestrato per sei mesi da trafficanti di uomini che speravano in un riscatto. Redwan non sente la famiglia da quando è partito. Aveva 14 anni, ora ne ha 17. «In Eritrea sei costretto ad arruolarti nell'esercito a 18 anni e a rimanerci a vita, non c'è libertà, non c'è istruzione, non ci sono medicine». Il ragazzo ha passato due anni in Sudan e uno e mezzo in Libia, solo, lavorando per pagarsi il viaggio. Il suo sguardo è rassegnato. «Qui non ci sono soluzioni per noi. Ogni mattina il Comune ci ripete che non ci sono posti. Così passiamo il tempo al parco, senza mangiare, senza fare niente».
I bivacchi nei dintorni della Stazione Centrale sono un problema e la situazione è complessa. Lo evidenzia anche Roberto Jarach, vicepresidente della Fondazione Memoriale della Shoah (presidente è Ferruccio de Bortoli). «Oltre a tramandare la conoscenza della Shoah, il Memoriale ha tra i suoi scopi fondativi quello di formare le coscienze per combattere l'indifferenza di oggi. Con questa iniziativa abbiamo visto l'opportunità di fare
qualcosa e abbiamo agito, perché non si può sempre aspettare che ci pensino gli altri. Tuttavia noi siamo chiusi durante il giorno e non abbiamo la possibilità di offrire un aiuto a lungo termine. Penso che le istituzioni dovrebbero fare di più, invece dopo due anni continuo a vedere non progettualità, ma improvvisazione».
Le difficoltà non spengono la vivacità di Danai. «Voglio studiare tutto, a partire dall'italiano», dice nel suo inglese semplice. Con gli occhi che brillano racconta che la sua famiglia è felice che lui sia qui. Poi gli chiedo se è consapevole del fatto che in Italia e in Europa ci sono tanti che non vogliono i migranti. «Hanno ragione! Succedono cose brutte nel deserto e in mare. La gente non vuole che ci succedano queste cose». Dunque c'è ancora chi crede che gli uomini seguano il cuore e non logiche di altro tipo. Anche questo non dovrebbe lasciarci indifferenti.


 PIA KUSOMA
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