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La Dichiarazione conciliare Nostra Aetate, una tappa fondatrice sul cammino del dialogo interreligioso
« Il concilio Vaticano II ha segnato una svolta maggiore nella comprensione dei rapporti tra il cristianesimo e le altre religioni »[1], dice il gesuita francese Michel Fédou. Evoca sopratutto il documento pubblicato dal concilio il 28 ottobre 1965, la Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, Nostra Aetate.
Il documento
Il testo sulle relazioni con le altre religioni è il più breve , ma forse il più ricco di conseguenze a lungo termine. E’ stato votato quasi all’unanimità (2221 placet e 88 non placet). Questo risultato potrebbe far pensare che è stato atteso dai Padri conciliari. Difatti, un primo testo fu pensato prima dell’apertura del concilio. Invece la sua preparazione è stata particolarmente faticosa, lenta, con discussioni piuttosto tese nelle commissioni di preparazione e dibattiti difficili. Sette versioni sono state necessarie per giungere finalmente alla versione definitiva votata soltanto all’ultima sessione.
Un iter lungo e faticoso
La decisione di avviare una riflessione sul tema, ma limitata all’ebraismo, è stata presa da Giovanni XXIII. Lui, che ha avuto un ruolo assai importante da Delegato apostolico ad Ankara durante la guerre, per organizzare il salvataggio di migliaia di ebrei dei Balcani, è molto preoccupato del rapporto con l’ebraismo. Riceve nel 1960 lo storico francese Jules Isaac, che ha perduto tutta la famiglia² a Auschwitz, fondatore dell’Amitié Judéo-Chrétienne, ainmatore nell’estae 1947 dell’incontro di Seelisberg in Svizzera, con una centinaia di delegati cristiani ed ebrei provenienti da venti paesi, che pubblica un documento, I Dieci Punti di Seelisberg. Isaac parla col papa dell’ « insegnamento del disprezzo ». Quando accoglie un gruppo di ebrei americani, si presenta così : « Giuseppe, vostro fratello »[2]
Il progetto è affidato allora al cardinale Agostino Bea (1881-1968). Nato in Germania, nel Land di Bade, prete nel 1912, entrato nella Compagnia di Gesù, biblista, specialista dell’Antico Testamento, insegna a partire dal 1924 all’Università Gregoriana, poi all’Istituto Biblico, di cui è il Rettore dal 1930 al 1949. E’ un professore uno studioso di grande fama, autore di numerosi libri e saggi. E’ spesso consultato da Pio XI e da Pio XII di cui è il confessore. Il suo ruolo nel concilio è notevole. Creato cardinale da Giovani XXIII nel 1959, presiede il Segretariato per l’Unità dei cristiani fondato già prima del concilio, nel 1960, che diventa poi il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, fino alla sua morte. E’ all’origine del Decreto conciliare sull’ecumenismo, ma da biblista, si occupa di seguire da vicino la preparazione di Nostra Aetate. Giovanni Paolo II ha riconosciuto nel 1981, il suo debito nel suo confronto : « il Suo contributo all’azione del Concilio illumina e stimola il nostro impegno affinché l’albero piantato dal Concilio nel suolo della Chiesa cresca e si sviluppi sempre di più ».
Questa origine come progetto limitato ai rapporti con l’ebraismo spiega perché, nella versione finale del documento, la sezione quarta sulla Religione ebraica, è la parte più sviluppata.
Perché una Dichiarazione sull’ebraismo ? Possiamo avanzare diverse ragioni :
- la memoria di Auschwitz, del genocidio (non si usa ancora la parola Shoah) ;
- 1961 : processo di Adolf Eichmann a Gerusalemme fondamentale per la conoscenza dell’accaduto in Europa durante la guerra ;
- la questione della responsabilità dell’antigiudaismo tradizionale e della sua responsabilità su una forma di disarmo delle coscienze, idea che gli ebrei sono gente a parte, e che gli Stati legittimamente possono prendere delle misure speciali contro loro ; ricerche sulla predicazione cristiana, la catechesi, l’immagine degli ebrei « deicidi » ; stereotipi trasmessi anche nell’arte popolare, cf le Passioni per esempio Oberammergau in Baviera ;
- presa di coscienza dei rischi portati dal cosidetto « insegnamento del disprezzo » ;
- 1963 : accuse contro Pio XII, Il Vicario ;
- approfondimento della conoscenza cattolica dell’ebraismo : biblisti, teologi, esegeti studiano l’Antico Testamento ; ruolo del Biblicum a Roma e dell’Ecole Biblique de Jérusalem.
Senza entrare nel dettaglio delle discussioni, bisogna sapere che il progetto elaborato sotto la responsabilità del cardinale Bea, ha incontrato le opposizioni più vivaci. Il documento preparatorio comincia ad essere preparato già dall’autunno 1960, nel quadro del Segretariato per l’Unità dei cristiani ; il testo è rigettato dalla Commissione preparatoria del concilio nel giugno 1962, e non è presente nella prima sessione. Poi e introdotto di nuovo su richiesta del Santo Padre e annesso allo schema sull’ecumenismo[3]. Tali opposizioni erano di impostazioni diverse : da parte delle Chiese cristiane del Medio Oriente che temevano delle conseguenze nel contesto difficile della Terra Santa, dei loro rapporti complessi con il giovane Stato israeliano e con il mondo arabo musulmano. Ci sono delle interferenze con la questione diplomatica, con la questione israeliana e del sionismo. Il viaggio di Paolo VI in Terra Santa all’inizio del gennaio 1964, con avanzate notevole sul ecumenismo (incontro con il patriarca Athenagora) è stato da questo punto di vista molto difficile[4]. Ma anche l’opposizione di una parte del mondo cattolico che resta su posizioni di sfiducia con il peso dell’antigiudaismo tradizionale cristiano. E come superare le interpretazioni antiebraiche di tanti passaggi del Nuovo Testamento, fatte da numerosi Padri della Chiesa ? Per esempio Ephrem il siro (v. 306-373), grande commentatore della Bibbia, liturgista, autore di inni bellissimi, che ha dei rapporti molto difficili con gli ebrei. E’ riconosciuto dalla Chiesa come Dottore della Chiesa, come Giovanni Crisostomo (v. 349/50 – 407), Monaco e prete, vescovo di Costantinopoli, famoso per le sue prediche (il suo nome significa “bocca d’oro”), molto popolare. I suoi Discorsi contro gli ebrei (386) costituiscono con il loro antiebraismo violento, un’ostacolo al dialogo ebraico-cristiano.
Per queste ragioni, la scelta finale è stata fatta di allargare il tema alle altre religioni non cristiane.
Una visione delle religioni
Prima di presentare le religioni, il testo si ferma su una riflessione generale. Sottolinea l’importanza della fede per ogni uomo che aspetta dalle religioni delle risposte a domande fondamentali :
« Gli uomini attendono dalle varie religioni la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana, che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e lo scopo del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, donde noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo » (n. 1).
E si aggiunge :
« le altre religioni che si trovano nel mondo intero si sforzano di superare, in vari modi, l’inquietudine del cuore umano proponendo delle vie, cioè dottrine, precetti di vita e riti sacri » (n. 2).
Si tratta quindi di sottolineare i punti comuni, dalla unica famiglia umana – tema molto trattato nel magistero ponficio in particolare con Pio XI e Pio XII, sotto la spinta delle teorie razziste , negli anni Venti e Trenta – all’interdipendenza tra i popoli e all’incontro permanente su una terra sempre più « piccola » con l’alterità. Viene allora la tesi centrale della Dichiarazione :
« La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illuminia tutti gli uomini ». (n. 2)
Siamo qui nel cuore della teologia conciliare sulle religioni, cioè uno sguardo positivo e rispettoso, l’accettazione dell’alterità. Sopratutto, introduce l’idea che le altre religioni, che la diversità religiosa fanno parte del piano di Dio e che « il disegno di salvezza » si estende a tutti « finché gli eletti saranno riuniti nella città santa » (n. 1).
Tale affermazione non impedisce di ricordare che la Chiesa « annuncia ed è tenuta di annunciare il Cristo che è ‘via, verità e vita’ (Gv 14, 6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose » (n. 2). Quindi, bisogna agire con « prudenza e carità » nei rapporti con le altre religioni, senza dimenticare di rendere « testimonianza alla fede e alla vita cristiana ». Nel dialogo e la collaborazione « con i seguaci delle altre religioni », questi principi non debbono essere dimenticati.
L’obbiettivo è sopratutto, in un mondo in pieno cambiamento, di fare delle religioni non più uno strumento di divisioni e di conflitti, ma al contrario di « fraternità universale », che esclude ogni odio. « Dio come Padre di tutti gli uomini », ci porta a « comportarci da fratelli » :
« Viene dunque tolto il fondamento a ogni teoria o prassi che introduca tra uomo e uomo, tra popolo e popolo, discriminazioni in ciò che riguarda la dignità umana e i diritti che ne promanano » (n. 5).
Quindi la Chiesa « esecra » (notare la violenza della parola scelta), ogni tipo di marginalizzazione, di discriminazione, di persecuzione, « come contraria alla volontà di Cristo » (n. 5).
La dichiarazione evoca rapidamente e superficialmente l’induismo e il buddismo, e senza altra precisazione « le altre religioni », raggrupate sotto il segno del desiderio di « superare in vari modi, l’inquietudine del cuore umano proponendo delle vie, cioè dottrine, precetti di vita e riti sacri » (n. 2). Invece il testo si ferma più a lungo sull’islam, e ancora più a lungo, sull’ebraismo.
L’islam
Bisogna osservare dapprima che pur essendo breve (due paragrafi, una decina di linee), questo passaggio è notevole perché per la prima volta in una storia di tredici secoli, la Chiesa cattolica porta uno sguardo ufficiale sull’islam e apre delle perspettive di dialogo.
Certo l’idea di dialogo con l’islam non è nuova nella Chiesa.
Però l’ideale di dialogo con l’islam non è nuova nella Chiesa. E’ possibile ricordare Francesco di Assisi che va, nel contesto violento delle crociate, nel 1219, all’incontro del sultano al-Kâmil, tema raffigurato da Giotto nella Basilica di Assisi ; il catalano Ramon Lull (1235-1315) che cercava l’incontro tra studiosi ebrei, cattolici e mussulmani. Disponiamo di documenti che testimoniano da parte di diversi pontefici, di un desiderio di stabilire dei rapporti di pace : nel 1076 Gregorio VII scrisse all’emiro della Mauritania al-Nâsir e finisce il suo messaggio augurando che « Dio lo ricevi lui stesso » dopo il suo soggiorno terrestre « nel seno della beatitudine del molto santo Patriarca Abramo ». Nostra aetate riprende esplicitamente tale testo : « La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra » (n. 3). Esistono altri interventi che possono essere tutti citati[5]. Bisognerebbe evocare anche tante iniziative nel Novecento, incontri, tentativi di dialogo da parte di grandi intellettuali come per esempio Louis Massignon (1883-1962), tra i più grandi orientalisti contemporaneo, grande conoscitore della mistica musulmana.
Se la Santa Sede si è dotata di uno strumento di conoscenza sull’islam con il PISAI (Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica) fondato dai Padri bianchi a Manouba (vicino Tunisi) nel 1926, trasferito a Roma nel 1964), con Nostra Aetate la Chiesa si esprime ufficialmente attraverso la voce di un concilio sull’islam per la prima volta.
La storia dei rapporti islamo cristiani è una storia sopratutto di conflitti. Il concilio non ignora questo passato che pesa, che bisogna sorpassare :
« Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione » (n. 3).
La Dichiarazione evoca tre grandi personaggi della Bibbia, comuni alle due religioni : Abramo « a cui la fede islamica volontieri si riferisce », Gesù venerato « come profeta », e Maria invocata « talvolta » « con devozione ». Poi il documento evoca la speranza nella risurrezione e la questione morale :
« Così pure hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio, sopratutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno » (n. 3).
Nostra Aetate sembra quindi un testo nel quale ogni parola è stata pesata e che ha dato luogo a tanti dibattiti. Dimostra la volontà di insistere sui punti comuni, su ciò che può riunire, lasciando da parte ciò che divide. Si segnala soltanto che i musulmani non riconoscono la divinità di Cristo. Sulla questione morale le questioni dello statuto della donna, della poligamia, della ripudiazione, ecc. Sono evitate. L’importante è di sottolineare gli aspetti comuni per giungere all’appello finale : « difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace, la libertà » (n.3). Sembrava importante definire queste mete comuni in un contesto di decolonizzazione, in particolare dei paesi arabo musulmani (fine della guerra di Algeria nel 1962) dove il cattolicesimo era visto come la religione del colonizzatore. Difatti i Padri si dimostrano assai ottimisti. La giustizia sociale, la carità possono essere considerati come preoccupazioni comuni, e servire concretamente di base all’incontro. Sulla pace, siamo già su un terreno più teso con il concetto di jihad. Ma la libertà ? Il testo non dice la libertà religiosa. Eppure essa è un’aspetto fondamentale della libertà che è il tema centrale della Dignitatis humanae, ma anche della diplomazia pontificia attraverso il mondo.
Non bisogna considerare questo documento altrimenti che come un’apertura, una porta aperta al dialogo, senza illudersi sulle difficoltà.
L’ebraismo
Un terzo del documento è dedicato all’ebraismo. Questo posto importante traduce il legame particolare tra cristianesimo ed ebraismo dal punto di vista teologico e anche nel ricordo della persecuzione contro gli ebrei.
Sul primo punto, è sottolineata la filiazione tra Antico e Nuovo Testamento attraverso Abramo, I patriarchi, Mosé, I profeti:
“Essa [la Chiesa] si ricorda anche che dal popolo ebraico sono nati gli apostoli, fondamenta e colonne della Chiesa, e così quei moltissimi primi discepoli che hanno annunciato al mondo il Vangelo di Cristo. » (n. 4).
La prima fase della parte della Dichiarazione dedicata alla religione ebraica, è molto importante teologicamente :
« Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualment legato con la stirpe di Abramo ».
Si tratta di rinnovare, anche di cambiare lo sguardo sul popolo ebraico. Certo, rimpiange il documento, « gli Ebrei in gran parte non hanno accettato il Vangelo, ed anzi non pochi si sono opposti alla sua diffusione ». Ma ciò non significa rottura con Dio, anzi « rimangono ancora carissimi a Dio ».
Il documento insiste nel dimostrare quanto è grande « il patrimonio spirituale comune ». Quindi il concilio « vuole promuovere e raccomandare […] la mutua conoscenza e stima che si ottengono sopratutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo. » Lo studio, la conoscenza sono elementi fondamentali per capire l’importanza dell’Antico Testamento, che d’altra parte trova un posto notevole nella liturgia. Ormai i cattolici dovranno essere più familiari dell’Antico Testamento che è stato piuttosto dimenticato nella cultura cattolica durante i secoli. La posizione del concilio è di dire che tornare all’Antico Testamento significa tornare alle radici del cristianesimo.
I punti forse più importanti del testo vengono allora. I Padri denunciano le persecuzioni contro gli Ebrei
« La Chiesa inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma di religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manfifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque » (n. 4),
e denunciano come falso il motivo sul quale poggia l’antiebraismo tradizionale diffuso tra I cristiani, cioè la responsabilità collettiva degli Ebrei nella morte di Cristo:
« E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo » (n. 5).
Già nel 1960, il cardinale Liénart, vescovo di Lille, uno dei Padri conciliari più attivi, aveva pubblicato un messaggio di Quaresima che ebbe una diffusione eccezionale. Un testo non legato al concilio, ma che esprime un parere che prepara la Dichiarazione Nostra Aetate. Il vescovo francese scriveva :
« Non è vero che il popolo ebreo sia il primo nè l’unico responsabile della morte di Gesù. […] Non è vero che sia il popolo deicida […]. Sarebbe più ingiusto ancora rendere responsabile il popolo ebreo intero, quello di oggi come quello di allora, e di dimenticare ciò che gli dobbiamo […]. I suoi profeti sono i nostri profeti. I suoi salmi sono diventati la nostra preghiera. Alla sua stirpe apparteneva in quanto uomo il nostro divino fondatore : Gesù, figlio di Davide nostro Salvatore […]. Non è vero anche che Israele, il popolo eletto dell’Antico Testamento, sia diventato nel Nuovo, un popolo maledetto. »[6]
Con tale evoluzione della riflessione, il concilio giunge a cacciare ogni parola di disprezzo nei confronti degli Ebrei :
« E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli Ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisce dalla Sacra Scrittura. Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo » (n. 5).
Non siamo molto lontani dai Dieci Punti di Seelisberg, che nel 1947, recitavano :
1.Ricordare che è lo stesso Dio vivente che prla a tutti noi nell’Antico come nel Nuovo
Testamento.
2.Ricordare che Gesù è nato da una madre ebrea, della stirpe di Davidee del popolo
d’Israele, e che il suo amore ed il suo perdono abbracciano il suo popolo ed
il mondo intero.
3.Ricordare che i primi discepoli, gli apostoli, ed i primi martiri erano ebrei.
7. Evitare di presentare la passione in modo che l’odiosità per la morte inflitta a
Gesù ricada su tutti gli ebrei o solo sugli ebrei. In effetti non sono tutti gli ebrei
che chiesero la morte di Gesù…Ricordare a tutti i genitori e educatori cristiani
la grave responsabilità in cui essi incorrono nel presentare il Vangelo e
sopratutto il racconto della passione in un modo semplicista.
8.Evitare di riferire le maledizioni della Scrittura ed il grido della folla eccitata : ‘che il
suo sangue ricada su noi e su nostri figli’, senza ricordare che quel grido non
potrebbe prevalere sulla preghiera infinitamente più potente di Gesù : ‘Padre,
perdona loro, perché non sanno quello che fanno. »
Conclusione
Bisogna sottolineare l’importanza di Nostra Aetate come punto di partenza. Tre aspetti da ritenere.
1) La creazione nella Curia romana, di strutture di dialogo : il Segretariato per l’Unione dei Cristiani, precede il Concilio, creato il 5 giugno 1960 da Giovanni XXIII. Confermato da Paolo VI, e la Costituzione Regimini Ecclesiae universae (15 agosto 1967) ne estende la competenza all’ebraismo con una Commissione specifica per i rapporti religiosi con l’ebraismo. Il Segretariato diventa con la Costituzione Pastor bonus del 28 giugno 1988, il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
Altro servizio nuovo, è Segretariato per I non cristiani, istituito da Paolo VI durante il Concilio, il 19 maggio 1964, con il compito di promuovere studi su le altre religioni e contatti con I loro seguaci. Poi Giovanni Paolo II lo trasforma in Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso. Nel suo seno, è stata creata da Paolo VI nel 1974 la Commissione per i Rapporti religiosi con i Musulmani. In un filone vicino, è crato da Paolo VI, il Segretariato per i non credenti, il 9 aprile 1965, per promuovere il dialogo tra il messaggio del Vangelo con le culture spesso segnate dall’indifferenza religiosa, o anche dall’ateismo. Il 20 maggio 1982, Giovanni Paolo II lo unisce con il nuovo discastero che ha voluto creare, il Pontificio Consiglio della Cultura.
Il papa ha a sua disposizione un insieme di dicasteri nuovi, strumenti di lavoro e di influenza, precisamente dedicati al dialogo, all’apertura della Chiesa sul mondo.
2) Una seconda conseguenza è l’opposizione della minoranza attorno a Mons. Marcel Lefebvre, durante il Concilio, che trova con il testo sulla libertà religiosa, una base forte per la sua contestazione dei principali orientamenti del pontificato di Giovanni Paolo II, fino allo scisma.
3) Sopratutto, Nostra Aetate si colloca all’inizio di un cammino del magistero pontificio, che porta al dialogo approfondito con le religioni, cioè all’incontro di Assisi il 27 ottobre 1986. Precedentemente si recò a Casablanca nel Marocco, dove pronunciò un’importante discorso sul dialogo con l’islam. Ma voglio fermarmi sopratutto sul suo rapporto con l’ebraismo, in legame con il Concilio Vaticano II. Precisamente, papa Wojtyla che ha partecipato al Concilio, approfondisce l’insegnamento del Concilio, e sulla questione del rapporto con l’ebraismo, va al di là della Nostra Aetate, cammina veloce sulla strada aperta dalla Dichiarazione conciliare. Difatti, lui che aveva con l’ebraismo un’approccio teologico e forse sopratutto un’approccio umano, sentiva profondamente questo « vincolo » di cui parla Nostra Aetate[7] . Aveva anche una grande sensibilità per la storia e un senso stupendo del gesto[8].
La parola « vincolo » si ritrova in quasi tutti i discorsi de Giovanni Paolo II sull’ebraismo. Già il 12 marzo 1979, ricevendo un gruppo di ebrei, afferma che il popolo del Nuovo Testamento e quello di Abramo « Sono strettamente vincolate sul piano delle proprie rispettive identità religiose »[9]. Il 28 ottobre 1985, per il XX° anniversario della Dichiarazione conciliare, parla di « una relazione che può essere ben chiamata una comune stirpe », e aggiunge che « Questo ‘legame’ può essere chiamato ‘sacro’, discendendo di fatto dal misterioso volere di Dio » L’anno successivo, durante la sua visita alla Grande Sinagoga di Roma, il 13 aprile 1986, afferma che « La religione ebraica non ci è ‘estrinseca’, ma in un certo qual modo, è ‘intrinseca’ alla nostra religione. […] Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori. »
Nello stesso tempo, il papa non nasconde le differenze, in primo luogo la persona e la missione di Cristo, che ricorda sempre ai suoi interlocutori ebrei. Ma andando al di là di Nostra Aetate, riconosce la validità attuale dell’Alleanza voluta da Dio con il popolo di Israele. Durante la sua visita apostolica in Germania nel novembre 1980, dinanzi ai rappresentanti della comunità ebraica incontrata a Magonza, saluta « il popolo di Dio dell’Antico Testamento, da Dio mai revocata », poggiandosi sulla Lettera ai Romani, 11, 29.
Qualche anno dopo, è pubblicato nel maggio 1985, il documento preparato dalla Commissione per le relazioni religiose con l’ebraismo. Questo testo, con il titolo Notes pour une manière correcte de présenter les Juifs et le Judaïsme dans la prédication et la catéchèse de l’Église catholique, [Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica] propone, a partire dal discorso di Magonza, una riflessione teologica sull’alleanza « irrevocabile » tra Dio e la stirpe di Abramo.
Giovanni Paolo II ha voluto rinnovare la relazione tra cristianesimo ed ebraismo, sotolineando una visione unitaria nel disegno di Dio nell’Alleanza, che rispetta le differenze ed unisce nello stesso tempo[10]. C’è una comune radice nella Rivelazione, che distingue le due religioni a paragone delle altre religioni, in particolare l’islam. Per il papa, l’ebraismo occupa un posto particolare nel cristianesimo attraverso le idee di continuità e di compimento a partire di una « Alleanza mai revocata » e del riconoscimento del valore intrinseco dell’Antico Testamento.
A questa visione teologica del rapporto con l’ebraismo si aggiunge in Giovani Paolo II, un senso acuto della storia, in particolare della Shoah. Per lui, l’antisemitismo è impossibile, e Auschwitz occupa nel suo pensiero un posto centrale per non dire ossessivo. Al giornalista Vittorio Messori, dice 1993 a proposito di Auschwitz che è una esperienza che « ancora oggi » porta in lui stesso. La sua omelia pronunciata il 7 giugno 1979 durante la Messa al campo di Brzezinka (Birkenau), vicino Auschwitz :
« […] Vengo allora e mi inginocchio su questo Golgota del mondo contemporaneo […]. In particolare mi soffermo […] davanti alla lapide con l’iscrizione in lingua ebraica. Questa iscrizione suscita il ricordo del Popolo i cui figli e figlie erano destinati allo sterminio totale. Questo Popolo ha la sua origine da Abramo, che è padre della nostra fede (cf. Rm 4, 12), come si è espresso Paolo di Tarso. Proprio questo popolo, che ha ricevuto da Dio il comandamento : ‘non uccidere’, ha provato su se stesso in misura particolare che cosa significa uccidere. Davanti a questa lapide non è lecito a nessuno di passare oltre con indifferenza ».
La Shoah è per lui dell’ordine del ricordo vivo. Il 23 marzo 2000, a Yad Vashem, a Gerusalemme, ha offerto questa meditazione :
« In questo luogo della memoria, la mente, il cuore e l’anima provano un estremo bisogno di silenzio. Silenzio nel quale ricordare. Silenzio nel quale cercare di dare un senso ai ricordi che ritornano impetuosi. Silenzio perché non vi sono parole abbastanza forti per deplorare la terribile tragedi della Shoah. Io stesso ho ricordi personali di tutto ciò che avvenne quando i Nazisti occuparono la Polonia durante la Guerra. Ricordo i miei amici e vicini ebrei, alcuni dei quali sono morti, mentre altri sono sopravvissuti.
Sono venuto a Yad Vashem per rendere omaggio ai milioni di Ebrei che, privati di tutto, in particolare della loro dignità umana, furono uccisi nell’Olocausto. Più di mezzo secolo è passato, ma i ricordi permangono. […] Noi vogliamo ricordare ».
Il tema del ricordo è fondamentale perché Giovani Paolo II condivide l’idea che la Shoah è stata facilitata dai pregiudizi antiebrei all’interno del cristianesimo. Nel 1998, la Commissione per le relazioni con l’ebraismo aveva pubblicato un documento molto importante Noi ricordiamo : una riflessione sulla Shoah.
Dopo la visita a Yad Vashem, il papa ha pregato dinanzi al Muro occidentale di Gerusalemme, il 26 marzo e ha inserito una preghiera tra le pietre, secondo la tradizione ebraica :
« Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il tuo Nome fosse portato alle genti noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli, e chiedendoti perdono vogliamo impegnarci in un’autentica fraternità con il popolo dell’alleanza ».
La Dichiarazione conciliare Nostra Aetate, pur essendo un documento breve, porta lontano.
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[1] Michel Fédou, « L’Église et les autres croyants », Études, novembre 2009.
[2] Jean-Marie Delmaire, « Vatican II et les juifs », p. 590.
[3] Jean-Marie Delmaire, p. 593.
[4] Jean-Dominique Durand, « Les papes et la Terre Sainte »,
[5] Robert Caspar, « Le concile et l’islam », Études, gennaio 1966.
[6] Jean-Marie Delmaire, p. 591.
[7] Aleksander Mazur, L’insegnamento di Giovanni Paolo II sulle altre religioni, Rome, Editrice Pontificia Università Gregoriana, 2004, p. 85.
[8] Jean-Dominique Durand, « L’usage du temps et de l’espace par Jean-Paul II », in Bartolo Gariglio, Marta Margotti, Pier Giorgio Zunino, Le due società. Scritti in onore di Francesco Traniello, Bologne, Il Mulino, 2009, pp. 415-433.
[9] Discorso citato Aleksander Mazur, L’insegnamento, op. cit., p. 85.
[10] Aleksander Mazur, L’insegnamento, op. cit., p. 91.
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