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7 September 2015 09:30 | Tirana International Hotel

Intervento di Mauro Garofalo



Mauro Garofalo


Community of Sant'Egidio

Il titolo di questa conferenza nasce da una convinzione profonda della Comunità di Sant’Egidio vissuta tenacemente e con poveri mezzi per quasi trent’anni.

La pace è sempre possibile ed oggi più che mai è assolutamente necessario che tutti si impegnino per ottenerla e rafforzarla. È una convinzione e una speranza:

Come ha scritto il Prof. Riccardi nell’Introduzione al Libro “Fare Pace”:

È una convinzione fatta non solo di principi ma è maturata nell’esperienza di tanti mondi dolorosi segnati dalla guerra, è divenuta speranza, realista e tenace. Bisogna trovare le vie per realizzarla, con pazienza, ricostruendo le fratture, creando un’intelaiatura di garanzie per il futuro

Viviamo infatti in un contesto inedito che Papa Francesco ha definito in maniera molto efficace come una terza guerra mondiale a pezzi. C’è forte in lui la consapevolezza che la comunità internazionale non faccia abbastanza, o non possa fare abbastanza. Anche per questo, io credo, questo Papa ha posto tutto il suo prestigio e la sua popolarità al servizio della pace, come abbiamo visto con la veglia di preghiera per la Siria nel settembre del 2013, nel facilitare il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Cuba, o nella azione a favore della riconciliazione tra israeliani e palestinesi.

Una terza guerra mondiale dove i conflitti esistenti non si risolvono mai, o tutt’al più si congelano, entrano in fase dormiente, e se ne aggiungono di nuovi.

Quali gli scenari di questa terza guerra mondiale a pezzi?

Non è mia intenzione fare un elenco completo dei conflitti, purtroppo lungo, ma vorrei dare dei tratti.

L’Europa: dobbiamo notare con grande preoccupazione le tensioni scatenate in conseguenza del conflitto tra Russia e Ucraina, conflitto ingiustificabile reso ancor più incomprensibile dal fatto che cristiani che condividono lo stesso battesimo si combattano tra di loro

È poi sotto i nostri occhi la grave situazione vissuta da gran parte del mondo arabo.

Uno dopo l’altro, a seguito della cosiddetta primavera araba sono caduti, o entrati in grave crisi, i regimi di Tunisia, Libia, Egitto, Siria, paesi in cui la situazione sembrava immutabile, regimi su cui anche l’occidente basava le sue strategie geopolitiche ed economiche.

Eravamo nel 2011, solo 4 anni fa. Oggi guardiamo alla Libia e alla Siria, entrate in un tunnel di cui non si vede la fine, al Libano gravato dal peso insostenibile dei rifugiati siriani. E l’emersione di un nuovo soggetto con aspirazioni statali, il sedicente Stato Islamico, che utilizza apertamente strategie e metodi terroristici e che pretende di rappresentare un modello esportabile.

A queste situazioni si aggiungono le tante crisi in corso nell’Africa subsahariana, dove si concentra buone parte degli sforzi di pace di Sant’Egidio. Crisi che purtroppo non hanno ancora trovato soluzioni stabili o definitive e che esprimono la fragilità degli stati o talvolta, come nel caso della Somalia, il fallimento degli stessi.

Un continente dove la tradizionale e saggia coabitazione tra le comunità religiose è oggi messa in pericolo da movimenti estremisti e da calcoli politici ed economici. Un continente dove i processi elettorali e l’avvicendamento dei regimi sono spesso fonte di tensioni politiche o peggio di grave instabilità (Pérouse de Montclos – transizioni democratiche senza democrazia……)

In America Latina, se ci sono speranze relative al pluridecennale conflitto colombiano con i negoziati di Cuba, bisogna segnalare con dolore che la violenza diffusa legata a associazioni criminali quali i cartelli del narcotraffico o le Maras, ha assunto dimensioni di veri e propri conflitti. Si fa fatica a credere alle statistiche dei morti per la violenza in alcuni di questi paesi.

In Asia infine, la speranza suscitata dagli accordi di Pace a Mindanao di cui non ho certo bisogno di parlare dal momento che attorno a questo tavolo sono riuniti alcuni protagonisti di quell’accordo. Ma esistono antiche ferite mai sanate, come le tensioni tra India e Pakistan per la regione del Kashmir, o le forti tensioni tra Corea del Sud e quella Nord, senza contare una tendenza generale agli investimenti sugli armamenti e una dialettica internazionale dai toni preoccupanti.

L’uomo della globalizzazione ha di fronte un mondo divenuto troppo piccolo e spaventoso in cui può seguire in diretta questi conflitti ma non ne percepisce le ragioni, o la loro complessità.

Di fronte a questo scenario cosa fa Sant’Egidio?

Vorrei sottolineare come l’impegno per la risoluzione dei conflitti sia per Sant’Egidio una diretta conseguenza, una naturale estensione di ciò che la Comunità vive in ogni parte del mondo.

Papa Francesco, a giugno dell’anno scorso, in visita alla comunità di Sant’Egidio ha voluto descriverla cosi:

In alcuni Paesi che soffrono per la guerra, voi cercate di tenere viva la speranza della pace. Lavorare per la pace non dà risultati rapidi, ma è un’opera da artigiani pazienti, che cercano quel che unisce e mettono da parte quel che divide, come diceva san Giovanni XXIII e ha poi aggiunto: Andate avanti su questa strada: preghiera, poveri e pace. 

Allora Sant’Egidio, una comunità cristiana di circa 70.000 membri sparsa in 73 paesi di 4 continenti vive un impegno quotidiano e gratuito di ciascuna e ciascuno per la pace e il dialogo.

Un artigianato paziente e globale

Non è per caso che la parola pace dia il nome a tante delle attività della comunità Sant’Egidio nel mondo.

Penso innanzitutto alle scuole della pace dove bambini e adolescenti di tutti il mondo, di ogni credo ed etnia, studiano insieme, e apprendono la bellezza del vivere insieme e del crescere insieme in amicizia.

Penso al movimento genti di pace dove immigrati, noi preferiamo chiamarli “nuovi europei” di ogni parte del mondo, di ogni religione, con alle spalle spesso storie difficili e di inaccoglienza. Accanto alla comunità trovano la forza di diventare essi stessi promotori di accoglienza e amicizia

Sono solo alcuni esempi. La vita delle Comunità di Sant’Egidio vuole rappresentare una profezia del vivere insieme perché è proprio la crisi del vivere insieme che è all’origine di molti conflitti.

SI, si può vivere insieme, senza temere la complessità del mondo

È il caso delle nostre comunità in Africa, quelle nella regione dei grandi laghi, Burundi, Rwanda, Hutu e Tutsi insieme, ma anche le comunità presenti in Ucraina e Russia, che non hanno ceduto al nazionalismo ma che contraddicono apertamente la logica dello scontro.

Solo apprendendo l’arte del vivere insieme si può costruire la pace.

E sono molto contento di ritrovare qui in questo panel l’on. Dyn Syamsuddin, L’amicizia che ci lega a lui e alla Mohammadiya, grande istituzione islamica indonesiana da lui diretta  fino a qualche tempo fa è stata costruita fin dall’inizio sulla comune convinzione che gli uomini di fede hanno la responsabilità di educare a vivere insieme nell’idea di un patto, un patto con Dio.
(Riccardi, “vivere insieme”)

Sant’Egidio è al servizio dei poveri e degli emarginati nella periferie del mondo. Da loro abbiamo compreso che la Guerra è madre di tutte le povertà

Dalla preghiera e all’amicizia con i poveri, da un atteggiamento non rassegnato, sono scaturite tante iniziative di dialogo per la pace e per la risoluzione dei conflitti nel mondo

Il caso più conosciuto è quello della pace in Mozambico, ma tanti, in questi 25 anni, sono venuti a bussare alla nostra porta per cercare per il loro paese o il loro popolo una soluzione pacifica.

Sant’Egidio ha mezzi poveri ma efficaci: e ne vorrei dire qualcuno.

1. La fedeltà alle situazioni, la capacità cioè di mantenere la speranza nell’attesa che si aprano strade nuove e spazi di dialogo.
La repubblica Centrafricana ad esempio, dove la comunità ha coltivato con pazienza e nella discrezione i vari attori della vita di quel povero paese per oltre un decennio. Questo lavoro, allo scoppiare della crisi nel 2013 ci ha permesso di riunire a Roma a più riprese, Leader religiosi, Partiti politici e movimenti armati per dare un contributo sostanziale al processo di transizione che si avvia, lo speriamo in questi mesi alla fine. Ancora più esemplare è il caso del conflitto che oppone il Senegal e il movimento indipendentista della Casamance, MFDC. Quasi ventennale l’attesa che si potesse cominciare un processo di pace che oggi ci vede come mediatori unici.

2. La mancanza di interesse, la gratuità, che ci permette di essere accettati in quadri negoziali complicati, rallentati o ostacolati dalla presenza di interessi opposti. A volte bisogna dire di interessi delle stesse nazioni o potenze che sono coinvolte nel dialogo che causa lo stallo delle iniziative delle Nazioni Unite. La mancanza di interlocutori percepiti come onesti è un serio problema. Lo vediamo in Libia ad esempio, dove speriamo che l’iniziativa dell’Inviato speciale porti i suoi frutti.
Il panel sulla Libia che si terrà domani è un esempio di come sia possibile ritagliare uno spazio di dialogo anche tra posizioni diametralmente opposte e apparentemente inconciliabili

3. Infine, la fiducia nell’uomo e nella possibilità di cambiamento di ciascuno.
Che nel fondo del cuore di ogni uomo ci sia un desiderio di pace. Abbiamo assistito a questo cambiamento molte volte; una lenta guarigione, una disintossicazione da quel veleno per l’anima che è la violenza. Talvolta talmente lenta da essere impercettibile.
In conclusione: la pace è sempre possibile, è una convinzione che si fa esperienza, una speranza che si fa lavoro quotidiano di tanti.


 

#peaceispossible
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