Periodista, FAZ, Alemania
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Ci sono alcune parole che, nel mio lavoro, mi accompagnano ormai da vent'anni quotidianamente. Una di queste è “colloqui di pace”. E' una parola che suscita speranze, speranze della fine delle immagini eternamente uguali di spargimenti di sangue, distruzione, miseria e deportazione. Ma soltanto di rado questa speranza è diventata realtà. Anzi, se non vado errato, il numero dei conflitti tra stati e di quelli intestini negli ultimi venti anni è persino aumentato.
E' necessaria dare una piccola spiegazione del fatto che, in questo mio intervento sul tema “Raccontare il mondo – informazione e pace” considero un arco temporale di esattamente venti anni. Si tratta di un motivo svergognatamente personale. Domani saranno esattamente vent'anni che sono entrato (il 1 ottobre 1993), come redattore nella redazione politica della Frankfurter Allgemeine Zeitung. Allora avevo 33 anni, ero biondo ed avevo due figli. Oggi ho 53 anni, ho capelli grigi e tre dei miei ormai sei figli sono diventati adulti ed hanno già lasciato la loro famiglia d'origine. Il mondo, però, in questi venti anni non è diventato più adulto.
Allora, nell'autunno del 1993, le colonne di tutti i giornali erano piene di rapporti di trattative di pace. Nella capitale norvegese, Oslo, per mezzo della mediazione degli Stati Uniti si trattava della pace tra israeliani e palestinesi. A Ginevra gli sguardi si rivolgevano agli sforzi dei mediatori che, dopo la definitiva disintegrazione della Jugoslavia volevano prevenire una nuova guerra nei Balcani – vedi la Bosnia.
Non è necessario che vi spieghi cosa ne sia stato del processo di pace di Oslo e degli accordi di Dayton, conclusi nel 1995. Yasser Arafat è morto da un pezzo, Yitzhak Rabin venne assassinato. In ed attorno ad Israele gli stati non sono due ma tre – Israele ed i territori occupati, la striscia di Gaza controllata da Hamas e la Cisgiordania dominata da Al Fatah – o meglio la parte della Cisgiordania che gli Israeliani hanno lasciato ai Palestinesi. E per quanto riguarda la Bosnia – Erzegovina, sappiamo tutti, essendoci incontrati l'anno scorso alla preghiera per la pace della Comunità di Sant'Egidio a Sarajevo, che, visto dal 1993, la guerra di Bosnia doveva ancora iniziare. Oggi la “Gerusalemme dei Balcani” è storia, una vera pace tra i gruppi etnici, definiti in base alla loro appartenenza religiosa, non si intravede ancora. Ma questo non è di gran lunga tutto ciò che sarebbe da dire sulla pace, nella prospettiva degli ultimi venti anni.
Se facciamo passare la storia dal primo ottobre 1993 in rapida successione, potremmo dire, quasi cinicamente, che il mondo oggi sarebbe molto migliore, se si fosse rimasti al conflitto palestinese e alla guerra di Bosnia. Ciò che allora ancora non conoscevamo, ma di cui mano a mano ci trovammo a scrivere, spazia dal genocidio in Ruanda (mi ricordo ancora bene come, durante un turno di lavoro di notte arrivò la notizia dell'abbattimento dell'aereo presidenziale), alla guerra in Afghanistan e l'invasione americana dell'Iraq, alla dozzina di guerre civili in Africa e la sorte di vari milioni di desplazados in Colombia, fino alla cosiddetta primavera araba.
A questa primavera finora non è seguita nessuna estate, piuttosto sembra che l'”era delle confessioni religiose”, che tenne l'Europa con il fiato sospeso dal 1600 al 1800, si ripeta, accelerato, nel mondo arabo, ovviamente con la differenza che, nel conflitto per il balance of powers tra le potenze regionali sunnite e sciite, la cultura cristiana, che risale fin all'antichità, venga irrimediabilmente distrutta.
Non vi vorrei qui tenere un seminario di storia contemporanea. Tuttavia non vorrei trascurare di condividere con voi il mio “pane quotidiano“ da uno dei redattori politici di un quotidiano stimato a livello mondiale. E vi vorrei assicurare di una cosa: nessuna di queste “bad news” con le loro innumerevoli “morti di un epoca” è una “good news”. Al contrario. Nella mia professione sarebbe già una “good news” se, dopo venti anni di lavoro, dovendo gestire “bad news” quotidianamente, non si fosse diventati cinici, non si fosse consumati dalle notizie quotidiane di attacchi, massacri e minacce di guerra, e non si fosse a priori senza speranza quando si parla di “colloqui di pace”.
Posso dirvi per esperienza personale: non è facile conservare la facoltà di vedere i destini dietro le lettere e le immagini, quando si è presi dal flusso delle notizie. Si tratta, infatti, più di una facoltà. Vedere, di per sé, è una decisione, un atto di volontà. Mi fermo a guardare, o guardo piuttosto altrove? A volte mi sopraggiunge il pensiero che la diminuzione delle tirature dei quotidiani, un fenomeno mondiale, non abbia soltanto a che fare con la nascita dei media elettronici e i cosiddetti social network. Ai miei occhi il quotidiano è sempre stato il social network per antonomasia: fornisce alle persone ed alle aggregazioni sociali informazioni sul mondo fatto di persone e aggregazioni sociali, verso i quali i primi possono orientare il proprio comportamento. La campana a morto che in molti luoghi viene suonata per il quotidiano stampato, ed il rintanarsi di una parte cospicua delle nuove generazioni nei nuovi social media secondo me è da interpretare come un atto di regressione collettiva, di espressione del disprezzo di ciò che è pubblico.
Di cosa si nutre questo disprezzo? L'ascesa dei social media potrebbe trovare una certa logica come somma di decisioni singole. Dove, di fronte ad un mondo sempre più complesso e sempre meno controllabile, prende il sopravvento il senso di impotenza, il ritiro nel privato è una reazione più che comprensibile. Ma anche in questo caso il totale non è uguale alla somma delle parti. Perché, dove manca una “cosa pubblica” finanziata dai cittadini, manca una istanza, la cui funzione di vigilanza e controllo è indispensabile.
Questa funzione viene comunemente descritta considerando i tre poteri dello stato, quello legislativo, quello esecutivo e quello giurisdizionale. Spesso si dice che i media sarebbero qualcosa come un “quarto potere”. Può darsi. Ma lasciatemi guardare a questo “quarto potere” anche in una prospettiva diversa, un po' insolita. I media hanno questa funzione nella misura in cui è loro compito far attenzione a che i conflitti non vengano dimenticati, e che povertà e miseria dell'umanità non spariscano dall'agenda delle società dell'occidente sature del benessere sature.
Cosa sono però “i media”? Non sono proprio macchine di ricerca anonime, che funzionano secondo determinati algoritmi. Queste ultime non generano contenuti (grazie a Dio), ma li divulgano oppure li occultano. I contenuti stessi vengono ancora fatti da uomini: da corrispondenti e redattori. Questo è il fattore umano.
Perciò è tutt'altro che secondario chi fa cosa nelle redazioni, quali decisioni prende e chi viene mandato come corrispondente (ammesso che questi esistano ancora). Dò per scontato che ognuno padroneggi il proprio mestiere. Ma non tutti hanno il dono di possedere ciò che Salomone chiede al suo Signore: “un cuore che ascolta” (1 Re, 3). Questo però è necessario più di altre cose per svolgere un servizio alla pace. Un cuore, che pur con il rumore dell'esplosione delle granate e della assordante propaganda in favore della guerra, che fa confondere i sensi, continui a sentire la voce – in senso biblico – dei deboli, dei bambini, dei vecchi, delle vedove e degli orfani.
Sarebbe ovviamente ingenuo caricare troppo di significato la metafora del “cuore che ascolta”. Conoscete tutti il detto attribuito allo scrittore inglese Rudyard Kipling: “La verità è la prima vittima della guerra”. Perciò la prima virtù che porta verso la pace è quella di non evitare la verità, ma cercare di approfondirla con tutti i mezzi a disposizione. Quanto questo spesso sia difficile, ce lo mostra ogni giorno il conflitto in Siria. Perciò nella mia professione non solo si pone quotidianamente la domanda di cosa sia la “verità”, ma quanto di ciò che vi è da sentire e vedere sia effettivamente “vero”.
Ancora più difficile però è, sulla base di una conoscenza della “verità” che sia frammentaria, trarre le conseguenze corrette, fosse pure soltanto come commentatore. Cosa significa che non vi sia dubbio sul fatto che siano state le truppe del regime di Assad a rompere uno dei pochi tabù che, a livello mondiale, ancora reggeva, e abbiano utilizzato armi chimiche contro la popolazione? Cosa significa che la maggior parte dei cristiani e i loro capi vedono un futuro per sé e per la propria comunità in Siria, finché il regime di Assad rimane al potere. Anche a me è tutt'altro che sconosciuta la situazione in cui so benissimo che di fatto non so niente, o perlomeno non so abbastanza da poter valutare eticamente una situazione.
Con ciò, alla fine, siamo tornati di nuovo all'immagine salomonica di “un cuore che ascolta”. Poco fa ho spiegato che si tratta di avere un cuore, che pur con il rumore dell'esplosione delle granate e della assordante propaganda in favore della guerra, che fa confondere i sensi, continui a sentire la voce – in senso biblico – dei deboli, dei bambini, dei vecchi, delle vedove e degli orfani.
Nel dilemma di nome “verità” si tratta anche di ascoltare altre voci: le voci di coloro non hanno abbandonato la speranza di pace contro ogni speranza, e di conseguenza anche nelle ore più buie. Se facciamo passare gli ultimi anni come un film, allora non troveremo molti momenti, in cui la speranza di pace e riconciliazione siano prevalenti. Uno di questi è senza dubbio stato la mediazione della pace in Mozambico, attraverso i membri della Comunità di Sant'Egidio. Molte iniziative, piccole e grandi, da allora hanno preso questo grande gesto come modello. Anche l'incontro annuale di preghiera per la pace va messo in continuità con questo segno di pace, ed in continuità con il gesto di pace tracciato da Papa Giovanni Paolo II con la preghiera di Assisi del 1985 (sic!). Finché esistono questi segni e ci sono uomini e donne che si aggrappano a questi segni e rafforzano il loro “cuore che ascolta”, la speranza di pace non è morta. |